Vacanze? Cauterizzatevi un po’.

Braccione alle Tremiti, prima di…

1967. Avevo da poco conosciuto Ennio, “braccione”, come l’avevano soprannominato gli amici da Lisandro, la bisca dove andavamo tutti a giocare a flipper o a confrontarci in interminabili sfide al biliardo, sfide e tornei che terminavano sempre con l’urlo del vincitore…cassaaaaaaa. E gli sconfitti, mogi mogi, andavano a pagare. Gli avevano dato questo nomignolo per via del suo braccio destro, davvero imponente. Ennio giocava a tennis. Giocava? Diciamo che il tennis, allora, era la sua stessa ragione di vita. Se non era in campo a sfidare qualcuno era in garage a giocare contro se stesso, rimbalzando la palla sul muro, sempre più forte, sempre più veloce. Quell’estate, incautamente, Ennio decise che sarebbe venuto in vacanza con me. Lo misi in guardia, “guarda che io faccio vacanze, a dir poco faticose, spartane..” nulla, come se gli avessi detto, “vieni pure, ti divertirai, staremo bene…” Ennio era sì uno sportivo, abituato a sudare in campo e durante l’allenamento, ma le sue abitudini erano piuttosto cittadine, sempre in giacca di tweed, mocassini Saxone con le nappine, accendisigari Dunhill, sigarette Marlboro… poi magari non c’aveva mai una lira.  Io non fumavo. Ci tenevo ad avere fiato, perchè le mie erano vacanze di pesca subacquea, apnea per essere precisi. Pescavo, vendevo il pescato e mi mantenevo. Sì, perché i miei non erano davvero felici del mio modo di andare in vacanza e quindi non mi finanziavano, di solito riuscivo a partire con 20 o 30 mila lire (più o meno tra 180 e 270 €) e ci dovevo campare due mesi almeno. Autostop e campeggio libero in luoghi selvaggi, fuori dalle rotte dei vacanzieri, lontano da tutto. Questo era il mio modo di andare in vacanza. Partimmo quindi, destinazione le Tremiti, con tappa obbligata a Termoli, dove il nostro comune amico Nicola era in “vacanza castigo” (tre materie a ottobre), lontano dalle tentazioni della città eterna e dai suoi luoghi abituali di vacanza. Mettemmo due giorni ad arrivarci, ancora ricordo la marcia con gli zaini Roma -Tivoli, in cui nessuno ci caricò, poi un paio di camion e un’auto furono clementi, ci presero a bordo e alle due di notte del giorno dopo eravamo a bussare alla porta di Nicola. Fu felice? Certo, tanto, anche troppo. Ennio aveva le stimmate ai piedi, i mocassini non erano certo la calzatura più adatta alle camminate, io, grazie alle Clark, avevo solo i piedi sudatissimi e i calzini… che ve lo dico a fà? Deliziosi. Simpaticamente decisi che se li sarebbe goduti Ennio, e li nascosi nella federa del suo cuscino. Stanco com’era se ne accorse solo al risveglio, e fu un brutto risveglio, il suo e, se non fossi stato svelto ad evitare un suo pugno, lo sarebbe stato anche il mio. Non litigammo, eravamo al mare, con Nicola, e la vita ci sorrideva. Il papà di Nicola era un imprenditore, (strade, ponti), e stava completando il tratto di Autostrada dell’Aquila di cui aveva la commessa, quindi poteva essere generoso con il suo figliolo in castigo, e infatti lo fu: Nicola aveva la possibilità di mangiare in due posti, da Zi Basso oppure nel miglior ristorante fichetto della città, di portare ospiti e di “segnare”. Restammo una settimana, più o meno, all’ingrasso:  Zi Basso era un pescatore, e la sua cucina era eccezionale, solo pescato e solo con i pesci che finivano nelle sue reti, l’altro era il “classico” ristorante, cucina internazionale, tutto ben fatto, ma troppo formale per noi. Ripromettendoci di ripassare al ritorno partimmo con il traghetto per le Tremiti. Le isole erano magnifiche, come ci aspettavamo, ma il campeggio libero ci fu impedito da zelanti guardie che battevano a tappeto le coste, quindi finimmo in un campeggio organizzato, l’unico che c’era sull’isola. Comunque era ok, in mezzo ad una pineta, non troppo organizzato, insomma vivibile. Ma il fatto di dover pagare il posto tenda metteva in moto il mio “credo”: pescare per vivere. Ogni mattina, quindi, mi alzavo e a digiuno ovviamente, andavo giù a pescare. Smettevo solo al raggiungimento di una certa quantità di pesci, che poi facilmente vendevo nel campeggio ai villeggianti. Ogni mattina, però, Ennio si svegliava e andava al bar del campeggio, cappuccino, cornettto e Marlboro…con la cassa comune. Ogni giorno una discussione, finchè un giorno Ennio, stanco di ramanzine, mi dice “vengo anch’io a pesca”. Gli presto quindi maschera, fucile, pinne (avevo tutto doppio), gli spiego tutto e poi, visto che si attardava gli dico “ti aspetto giù, nella caletta. Sbrigati” . Scendo al mare, mi preparo, poi entro in acqua, un giretto… di Ennio nessuna traccia. Esco dall’acqua e vado a cercarlo, arrivo alla tenda e la trovo abbattuta, in terra maschera e pinne, poco più in là il fucile, ma senza la fiocina, la sagola tagliata… una delle mie Clark piena di sangue… “ma cosa è successo?”, mi chiedo, e inizio a cercarlo. Vado dai vicini “sì, è passato, cercava dell’alcool”, sempre più stupito arrivo ad una specie di condominio di grosse tende, ragazzi e ragazze di Treviso, studenti in medicina. Ennio era lì, sguardo accusatore, la fiocina ben piantata nella gamba, un rivolo di sangue raggrumato gli scorreva sul piede. “Ma cosa è successo, come hai fatto…?” “quel tuo kzz di fucile, non mi fidavo, ho provato a tirare su un pino, non l’ho preso, la sagola era corta e la fiocina tornata indietro mi si è piantata nella gamba…” “Adesso devi portarmi dal medico” continuò, “mi sono informato, sta in paese, sull’altra isola…” Vidi le vacanze allontanarsi, anzi, peggio, non avremmo neppure avuto più i soldi per pagare il campeggio… poi Ennio aveva lasciato “segnato” sigarette e cappuccini, anche i caffè dopopranzo. Si, la vacanza sarebbe finita lì. Ma i trevisani erano tutti studenti in medicina, primo e secondo anno. Convinsi Ennio che in pratica erano in tutto e per tutto medici, gli mancava solo una formalità, la laurea. Già, la Laurea, una mera formalità per noi giovani del ‘68…fu facile. Presi in mano la situazione, forte della mia convinzione, tra gli sguardi esterefatti e spaventati degli appena nominati “medici”, chiesi alle ragazze di tirare fuori le trousse di trucco, presi forbicine e pinzette, si, quelle per le ciglia… ordinai “bollite tutto bene bene”, preparate un fuoco, e quella palanca, mettetela in orizzontale, appoggiata a questi due tavoli. La sterilizai con l’acqua bollente, sarebbe diventata la nostra tavola operatoria. Tutto era pronto, Ennio no, era perplesso. Comprammo l’anestetico, un fiasco di vino rosso, mi lavai bene bene le mani e feci fare lo stesso a due ragazzi, a Kentucky (per la t shirt) e a Gianni, nominati miei assistenti. Feci scolare a garganella (e a digiuno) il vino a Ennio, che da lì a poco cominciò a essere davvero ubriaco, lo facemmo stendere con la gamba sulla tavola e la legammo  ben bene con delle cinghie, altri due forzuti avrebbero tenuto Ennio per le spalle, guai se si fosse potuto muovere. Iniziammo tagliando la pelle ai lati della gamba per liberare le due punte laterali, fu semplice, poi i due assistenti allargarono le punte. Restava solo la punta centrale, con le due alette ben conficcate nella carne, più o meno di un paio di centimetri. Con il lato posteriore delle due pinzette tenni la carne lontana dalle alette, un assistente sfilò la fiocina. Restavano brandelli di carne sfilacciata e un buco profondo due centimetri, con le forbicine pulii e tagliai i brandelli. Il buco era pulito, liscio, ma mancava la carne, bisognava cauterizzare, lo facemmo con un ramo di pino, pulito dalla scorza, la cui punta avevamo fatto diventare brace ardente, Infilai deciso la punta nella ferita, Ennio cacciò un urlo terribile, si liberò dalla stretta dei due energumeni e, ormai sobrio, ci maledisse a tutti. Tre giorni dopo era già in acqua. Guarì rapidamente, anche se il foro si vede ancora

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