Sporchi di sabbia rossa

Sette giugno duemilasette, eravamo entrati, anzi, scesi nella Valle di Keita, alle 16,45 esatte avevamo  superato il wadi, eravamo quasi arrivati. Di fronte a noi, lontano ma neppure troppo, avanza un muro rosso di nuvole e polvere, un temporale. Dimenticando le più elementari norme di prudenza io e Sam ci catapultammo fuori dall’auto, incuranti dei richiami del nostro autista, dei flebili rimbrotti di César, che rimase comodamente seduto sui sedili posteriori giocherellando con la sua compatta. Appena in tempo. Avevamo bisogno di immagini di pioggia, di acqua e lì, dove eravamo, non è cosa di tutti i giorni. Zuppi fino al midollo, sporchi di sabbia rossa, esaltati dalla situazione, eravamo riusciti a catturare immagini fondamentali al nostro progetto. Risalimmo sul fuoristrada bianco delle UN e presto arrivammo alla casa del coordinatore, il forestale che ci avrebbe organizzato le giornate e dato i limiti a cui attenerci. Ci fece subito una ramanzina: “Non fatelo più! Nei 4.860 km2 della valle dove più di 100.000 persone vivono prive di un bagno, tutti fanno i loro bisogni nella sabbia, immediatamente essiccati e polverizzati dal clima estremamente asciutto e caldo, bisogni che poi vengono raccolti dal temporale e…” insomma avevamo respirato… sapete bene cosa, e in un luogo dove è endemico un numero imprecisato di tipologie di meningiti. Avevamo rischiato, già. Ma avevamo catturato immagini di pioggia, di nuvole, di fulmini. Belle immagini, bellissime. La prima notte fu terribile, la casa era sì ben costruita, ma calda, asfissiante e l’aria condizionata riusciva a rendere sopportabile solo una grande stanza, una specie di salotto/ufficio dove pianificavamo il lavoro, ci confrontavamo e, spesso, discutevamo. Avremmo dovuto raccontare gli oltre 25 milioni di alberi piantati, gli 850 pozzi realizzati, e poi tutte le altre opere, gli sbarramenti per rallentare il deflusso delle acque piovane, i piccoli laghetti tra l’altopiano e la base della valle, dove furono immessi avannotti di pesci commestibili, e le scuole, i vivai per riprodurre le acacie senegalensis che andavano continuamente piantate sull’altipiano, per rallentare la forza del vento, per dare pascolo alle mandrie e legna per cucinare alle popolazioni. Scegliemmo invece di dare voce e volto, di narrare le donne e gli uomini, che con la loro opera continua, il loro lavoro, riuscirono a vincere, a fermare il deserto. Certo riuscirono anche grazie alle tecniche e ai progetti di chi riuscì a organizzarli, giovani professionisti inviati lì dal Governo Italiano, giovani che studiarono e applicarono  tecniche ancestrali utilizzate da popolazioni di ogni parte del mondo, per combattere l’ostilità dell’ambiente circostante. Già il progetto. Eravamo partiti ognuno di noi con una idea in testa, per poi far confluire tutto in un unico contenitore a tre mani, anzi, a tre teste. Sam, abituato a realizzare documentari ambientalisti o comunque di impegno sociale fu l’unico di noi a trovarsi a suo agio. Scoprimmo dal primo giorno che a Keita non esisteva la musica, le popolazioni, abituate da sempre ad un ambiente ostile, ad una vita dura, utilizzavano un linguaggio che non comprendeva concetti astratti, solo cose tangibili, reali. Amore significava solo una cosa, un atto molto concreto, niente romanticismi. E ogni etnia aveva il suo idioma, e pochissimi capivano o parlavano gli altri idiomi. Neanche il nostro accompagnatore, che pure avrebbe dovuto. Chi si trovò più in difficoltà fu César che ipotizzava di porre una serie di domande sui massimi sistemi e concetti legati alla vita, per poi rimontarli in un discorso unico. Dovette cambiare radicalmente le domande, adattandole ai personaggi intervistati. Io, che, avevo pensato di rappresentare gli uomini e le donne di Keita da vincitori, con le loro armi (zappe e altri attrezzi) un po’ alla Jacques Louis David…avete presente? invece, non potendo comunicare con i soggetti da fotografare fui costretto a cambiare idea, decisi che l’impossibilità a comunicare avrebbe giocato a mio vantaggio, loro mi avrebbero scrutato mentre li studiavo con il mio obiettivo. Non avevano mai visto in vita loro un Hasselblad, non capivano cosa stessi facendo, mi fu facile seguire la traccia dei pittori rinascimentali: l’uomo nel suo ambiente. Facile ho detto? Insomma. Girando i quattromilaottocentosessanta chilometri quadrati della valle di Keita ho scoperto una società che non considera l’acqua una proprietà privata, chiunque può bere dalla bottiglia di chi ha l’acqua, se ha sete. Capitò anche a me, mi ero fermato a fotografare un gruppo di ragazzini, tutti con una maglia a righe bianche e nere, faceva caldo e loro avevano finito l’acqua, si attaccarono alle mie due ultime bottiglie, senza finirle, ovviamente. Il medico mi aveva avvisato, “evita il contatto con i batteri locali, non hai la flora batterica del posto, ti verrà una diarrea, a dir poco” ma stavo per andare in disidratazione, mi irrigidivo e l’accompagnatore se ne accorse, mi costrinse a bere dalla stessa bottiglia in cui avevano bevuto i ragazzini. Mi venne una diarrea fulminante, appena poche ore dopo il tramonto ero già seduto ininterrottamente sul water. Notte d’inferno ma eravamo attrezzati e misi un tappo, due o tre pasticche che chiusero la perdita. Noi tre rimanemmo una sola settimana a Keita, era la stagione secca, faceva un caldo terribile e avevamo già tutto il materiale che ci serviva. Io ci  tornai mesi dopo durante la stagione delle piogge con Emiliano, un assistente, anzi “il Direttore del Riflesso”, come fu nominato sul campo. Avevo bisogno di immagini diverse, più verdi, con i campi coltivati e le messi rigogliose. Nelle due settimane fotografai più di duecento persone, contadini Haussà, pastori Peul, nobili Tuareg e tante donne orgogliose di sé e della propria avvenenza. Bella gente gli abitanti della valle, poverissimi ma eleganti, belli oltre ogni immaginazione, sereni, direi felici. Senza tv, senza elettricità, vivendo di cipolle, pomodori secchi, miglio e mais secco si sono dimostrate persone realizzate, ben più dei lamentosi ricconi nostrani. Andateli a vedere nella gallery Keita, su questo stesso sito.

Ps: non so come facessero, ma laggiù sapevano tutto del campionato italiano di calcio. Risultati e gossip compresi.

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