
L’archeologia, una passione. Mi prese di colpo, il giorno che in un fontanile nelle campagne vicino Roma trovai una testa di marmo usata per comprimere degli stracci a chiudere il foro di uscita dell’acqua. Chiesi al contadino se potevo prendermela e lui mi rispose “se trovi un modo migliore di chiudere il passaggio dell’acqua…” Presi le misure, molto precise, del foro di uscita e tornai giorni dopo con una saccoccia di cemento idraulico e una saracinesca da montare. Fatto il lavoro recuperai la testa, e il contadino, molto soddisfatto, mi regalò anche uno strano pezzo di marmo, sembravano testicoli, “ogni volta che aro viene fuori qualcosa“ mi disse. Era fatta, cominciai a cercare ovunque, l’Italia è piena di tesori, si trova di tutto, ovunque, di ogni epoca e storia. Vicino casa, a via Cortina, in un bosco trovai casualmente una linea di fili spinati ancora montati su dei ferri ritorti: una linea a protezione di una trincea. Percorrendola trovai una stanza sotterranea, quasi un bunker e lì dentro delle canne di fucile Mauser, arrugginite, il calcio ormai marcito…Ovviamente queste ricerche erano un reato, e quindi per non rischiare, e soprattutto per poter continuare, aderii ad un gruppo archeologico. Neanche tanto tempo dopo il gruppo lanciò un Concorso Fotografico/Archeologico e mi ci iscrissi immediatamente, coinvolgendo un amico, Pietro, detto “Sasso”, che studiava “Oriente Antico”, ma soprattutto possedeva una Harley Davidson d’epoca bellica, bellissima, tre marce inseribili con una leva a fianco del serbatoio e addirittura la marcia indietro. Sì, era pesantissima la “Duchessa”, come la chiamavano a Roma. Destinazione Sicilia, Selinunte, millequarantasette chilometri di strada andare e altrettanti a tornare, trecento i litri di benzina previsti. “Ci porterebbe a Pechino, volendo… e potendo”. Il giorno dopo, scendendo dal Tempio di Giove Anxur, a Terracina, per le tante frenate, le curve a gomito, il peso della moto e dei bagagli, bruciammo i freni a tamburo, comunque assolutamente insufficienti per l’Harley. A vent’anni dei freni se ne può fare a meno! Riprendemmo il viaggio. Neanche venti chilometri dopo, tra Fondi e Sperlonga, si ruppe la catena che collega il motore al cambio. Rimediai facilmente con una falsa maglia che era in dotazione. Ripartimmo, stavamo perdendo troppo tempo. Altri trenta chilometri, e si ruppe di nuovo la catena, ma ormai era tardi, buio ed eravamo solo a Formia. Ci rifugiammo per la notte sotto una barca dei pescatori ribaltata per l’inverno sulla spiaggia, era fine febbraio. A Formia nessun ricambio, mi toccò arrivare a Napoli e lì, “‘ngoppa o Vommero” trovai il meccanico specializzato in vecchie Harley… mi da quanto mi serve, e torno a Formia. Rismonto tutto e capisco il perché di queste rotture: la catena deve lavorare a bagno d’olio, ma il carter è rotto, ha una crepa sul fondo, e non tiene. Chissà da quanto tempo era così, forse dalla fine della guerra, ma girando solo per Roma… Smonto anche il carter, un fabbro con una saldatura a ossigeno riesce a riparare la crepa, con un foglio piombato ricostruisco la guarnizione per assemblare i due semicarter, rimonto tutto e partiamo il mattino seguente, dopo un’altra notte sotto la barca, cielo stellato, molto romantico. Arrivammo a Napoli, completamente senza freni, impossibile continuare così… portammo la moto al meccanico, quello “ ‘ngoppa o Vommero”. Ce la promise per l’indomani, costo contenuto, comunque troppo per la nostra “cassa comune”. Un altra notte da passare, questa volta a Napoli, una bella città, vivibile. Un paio di panini “sasicce e friarielle” e ci avventurammo sotto una pioggerellina insistente, destinazione l’Ostello della Gioventù, sopra Posillipo. Chiuso, apre solo d’estate. Cavolo e adesso? Camminammo lungo un vialone, ragionando su come svoltare la nottata. Pietro suggerisce di cercare un albergo, io rispondo secco “non se ne parla, in Sicilia non ci arriviamo più, abbiamo i soldi contati e quella tua kzz di moto…”, camminiamo, io con il cappuccio calato in testa per non bagnarmi, continuando il discorso, ipotizzando una qualche soluzione, quando mi rendo conto che Pietro, “Sasso”, è sparito. Ero solo, di notte, in una città che non conoscevo, senza un soldo e pioveva. La cassa comune la teneva lui, e anche i nostri documenti per via di una tasca con zip interna al suo giaccone. Trovai l’albergo dove aveva preso la stanza, ma era tardi, il cancello era chiuso e il portiere notturno, non mi fece entrare anzi mi informò che lui, Sasso, non voleva essere disturbato. Ero furente, bagnato e senza documenti… Accidenti. Lo stradone terminava in una rotatoria, proprio sull’altoforno di Bagnoli, il capolinea degli autobus. Il chiosco bar era ancora aperto, entrai, il locale era piccolo ma caldo. Chiesi di potermi riparare, di restare un po’ lì e il barista, gentile “tra poc partarrà l’ultimo pullmànn e io ‘nzerr, se non vi offendete teng nu’sospès.” “Un sospès? Cos’è un sospès” gli chiesi, “ nu cafè pavat da na’ perzona pe’ quaccheduno ca nu’ se po permettere…si ‘o vulite” Mi offrì invece un cappuccino e cornetto “Tengo o’ latte int’a’ coccumèll, e na briosce ca dimane n’è cchiù bbona”. Passai il resto della notte in un panificio, poco lontano, dormendo sui sacchi della farina, esattamente sotto al forno dove cuoceva il pane. Il fornaio curava prima l’impasto lievitato, gli dava la forma tradizionale, poi alternativamente metteva la legna nelle tre bocche, accendeva, puliva dalla cenere, infornava, estraeva e ricominciava. Una bocca dopo l’altra. Un lavoro faticoso, usurante, tutta la notte, tutte le notti per tutta la vita. Il fornaio mi aveva visto bagnato, stanco e mi aveva quasi costretto a riposarmi sui sacchi “accussì v’asciuttate, però ‘e cinque arriv’ o padrone e ve ne ata i’, si no me cazzèa”. Alle cinque esatte mi svegliò mi offrì una tazza di latte caldo e mezza pagnotta appena sfornata. Cose così solo a Napoli possono accadere. Alle 7 esatte tirai giù bruscamente dal letto “Sasso”, gli tolsi subito la cassa comune. Non fece un fiato. Da quel momento in poi l’avrei tenuto a stecchetto: “due sigarette al giorno, due caffè e per il cibo decido io”. Non arrivammo in Sicilia, ma a Paestum, visitammo Cuma e Baia, in un Vino e Cucina gestito da un “tombarolo” mangiai la migliore aglio e olio della mia vita e frugando a mani nude nel fango lungo il fiume Sele, accanto al tempio di Hera Argiva, in una palude melmosa, abbandonata e malsana, riuscimmo pure a trovare qualcosa, degli ex voto romani. Ma i soldi, i maledetti soldi erano finiti.Ritornammo a Napoli seguendo la Costiera, e lì, a Napoli, conoscemmo l’altra faccia della città, quella meno simpatica: mentre la attraversavamo, fermandoci solo ai semafori rossi, qualcuno riuscì a frugare nei nostri zaini e a fregarci quanto gli serviva. Un furto con destrezza, tanta destrezza, quasi una magia. Incredibilmente solo a Napoli.