
Arriva sempre il momento in cui tutti gli orpelli, tutte le stampelle, tutte le mistificazioni vengono viste per quello che sono: inutili, anzi, pericolosi inciampi. In quel preciso momento si inizia a togliere, eliminare, affinare. Fino ad arrivare all’essenza delle cose, all’elemento base da cui tutto deriva, potrebbe derivare. In fotografia l’essenziale è la percezione di un racconto, su cui ognuno costruisce una storia propria, cosa c’era prima, cosa ci sarà dopo? Sono sempre stato tentato dalla semplicità, dalla rinuncia agli orpelli. Lo racconta bene la foto realizzata con la “rosetta”, che attraverso un semplice foro ha potuto catturare l’essenza dei tetti fuori da una finestra. Poi la professione, la pubblicità, mi hanno travolto con le mille tentazioni tecnologiche, camere di ogni formato, ottiche pazzesche e costose, allestimenti sempre più complessi. Ma che la semplicità fosse ancora ben radicata nella mia visione è evidente già nei ritratti realizzati a Keita, senza nessun trucco, nessuna luce, nessuna indicazione ai soggetti fotografati. Un unico obiettivo, una camera (ok, una hasselblad digitale) una persona e un contesto, neppure ricercato. Ogni racconto deve avere uno scopo, in pubblicità è “mostrare per vendere” e per questo scopo la fotografia deve essere sufficientemente disonesta, il suo fine è essere una vetrina, un bell’allestimento, una buona luce. Ma la fotografia può e deve essere oggettiva, in grado di raccontare, descrivere e emozionare. Attraverso la verità, che è sempre soggettiva, vincolata allo sguardo di chi quella foto ha realizzato e da chi la osserva con la giusta attenzione. Il pretesto che ha permesso la costruzione della foto che precede questa storia è stato un breve corso di fotopittura che ho tenuto per due soli allievi slovacchi a novembre 2015. Perché l’ho fatto? Ma perché mi piace farlo, che diamine.

Ringrazio Jan e Peter per le motivazioni che mi hanno regalato.E anche per la foto che mi hanno fatto sulla porta di studio.
Foto pazzesca. Chapeau bas!
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