Odio i cani. Proprio non li sopporto

Cesira

Sì, odio i cani. Si può dire? È politically correct? Quando sono nato, era il 1948, mamma aveva un bellissimo cane, Buck, una specie di macchina da guerra, oggi si direbbe un pit bull, anche se non somigliantissimo. Il cane prese a essere troppo interessato a me, tra il curioso, l’aggressivo e il protettivo. I miei, spaventati dalla trasformazione caratteriale del canaccio, lo affidarono ad amici affinché ne avessero cura. Poi, poco tempo dopo, i miei partirono per una tournée in Sud America (mamma era una etoile del Teatro dell’Opera di Roma) e io andai con loro, ovviamente. Poi mamma fu scritturata dal Teatro Sodre di Montevideo e prendemmo casa in Uruguai. Per farmi compagnia raccattarono da qualche parte una specie di bassotta, cane gioviale, anche troppo, ma già incinta. Scavò una tana nel divano, da sotto, e ci scodellò un paio di cuccioli, piuttosto scuri. La faccenda mi turbò molto, anche perché la cagnetta mi mostrava i denti, e io, che avevo solo due anni, non ero abbastanza prudente, anzi, piuttosto incauto. Anche loro presero la strada del giardino di amici, una coppia di danzatori che lavoravano al Sodre. Rimasto solo, senza cani, mi incupii ma presto arrivò in casa l’ennesimo cane, un lupacchiotto, maschio questa volta per non avere sorprese. Durò pochi mesi. Un giorno che eravamo a Punta dell’Este a un ricevimento, un asado, il lupacchiotto rimasto solo in casa provò a tranciare/masticare un cavo elettrico…bruciò tutti i denti e si ustionò gravemente palato e altro. Dovettero abbatterlo. Eravamo tutti molto provati dal fatto, e stavamo quasi per adottare l’ennesimo pelosetto, quando mamma fu ingaggiata in Brasile: stava per nascere il Ballet do IV Centenario e Aurelio Millos la voleva assolutamente in compagnia. Ci trasferimmo a Sao Paulo. Cani basta, decisero i miei, e così fu. Almeno finchè restammo in Brasile, poi, tornati in Italia sul finire degli anni ‘50, cominciai io a raccattare ogni sorta di quadrupede incontrassi in strada. Era tanta la voglia di cane che una volta, abitavamo nei pressi di Piazza Navona, trovai e riuscii a catturare una grossa pantegana, un ratto insomma, gli misi un guinzaglio di quelli da chihuahua e lo portai a spasso per tutta una giornata, tra urla e rimproveri di chi lo scambiava proprio per un minuscolo cane. Ovviamente i miei non lo apprezzarono come animale da compagnia, e quindi fui costretto a lasciarlo. Peccato, si era addirittura affezionato, o almeno così mi sembrava. Dovetti aspettare di trasferirci a via Cortina d’Ampezzo, dove di cani abbandonati o persi ne giravano parecchi. Cercavo di nuovo un fedele compagno di giochi, un amico a quattro zampe insomma. Arrivò uno spinone, lo chiamai Nino, era bello ma aveva il vizio di rotolarsi sulle carogne e presto sparì. Fu poi la volta di Brownie, in mezzo tanti altre bestiole randagie. I cani arrivavano e, come erano arrivati, se ne andavano. Brownie, no, era arrivato per restare e divenne il mio fedele compagno di giochi, sempre a caccia di talpe o di volpi. Il mio amore per lui durò finché non cominciai a interessarmi alle ragazze, alle motociclette, alle feste. Confinato in giardino fece finta di niente, ma ci soffriva, e si vedeva. Anni dopo, ormai indipendente e adulto, mi trasferii a Monteverde Vecchio, e arrivarono altri cani, mastini questa volta. Janis fu la prima, ma morì giovanissima di gastroenterite virale (è sepolta in giardino, sotto l’alloro) e l’altro, che arrivò pochi mesi dopo, mi fu regalato da un amico di amici che non lo poteva più sopportare. Aveva preso un mastino per tenere i gatti lontani dal giardino, ma Toiffel, cresciuto con i gatti aveva finito per credersi un gatto, e quindi si comportava da gatto, camminava sui muri, si strusciava sui pantaloni, addirittura divideva la ciotola con gli altri felini. “Fuori, cane inutile”. Lo presi io, Toiffel era bellissimo, simpatico, per niente aggressivo non puzzava, non sbavava. Divideva il giardino e anche la cuccia con un gatto e due anatre. Un brutto giorno, però, si allontanò, dietro una cagnetta in amore. Non lo vedemmo più. Una notte d’inverno cercando lui trovammo Tanit, un altro mastino, però femmina. E poi fu la volta del primo Rottweiler, Randve (detto Tranve dagli amici) lo comprammo da un allevatore. Fu una sorpresa: un cane fedele, equilibrato, buono. Lo addestrai a difendere le borse delle attrezzature fotografiche, un incarico di fiducia in cui mise un impegno professionale degno di nota. A denti scoperti e il ringhiando ferocemente non faceva avvicinare nessuno. Un giorno, Patrizia, entrò a studio mentre eravamo tutti al bar, la trovai terrorizzata, le spalle al muro e Randve che, a distanza ravvicinata, ringhiando e digrignando i denti la teneva sotto scacco, impedendole qualsiasi movimento. Adesso è sepolto a Somaini, sotto un nocciolo, stroncato anche lui da un brutto male. Trovai sempre a Somaini da un carrozziere, a catena cortissima attaccata a una morsa, un altro Rottweiler, femmina questa volta. Avevo lo sguardo buono, il fisico imponente, le orecchie ben pettinate all’indietro. “Non posso tenerla, era di mio padre, ma lui ha avuto un problema cardiaco e… mia moglie non la vuole neppure vedere…” mi disse il giovane carrozziere. Non ci pensai due volte, il cane era bellissimo, aveva 7 mesi. Le misi un guinzaglio e via. Stava al passo, era già addestrata. La chiamammo Cesira. Appena la portai a casa e sciolsi il laccio Cesira si diede alla pazza gioia, prese da terra un paio di calzini, correndo e ringhiando li lanciava per aria per poi riprenderli al volo. Paola, che non aveva alcuna dimestichezza con i Rottweiler, si spaventò e si nascose dietro una porta… poi capì che era il suo modo di dimostrare che era felice. Cesira e i viaggi in furgone, addormentata in braccio come un bambino. Cesira al concerto rock che si scola tutta la mia birra. Cesira che non vuole uscire quando piove perché le si arriccia il pelo. Cesira che non ha paura di niente, ma è terrorizzata da un filo che attraversa la stanza. Noi sul divano e Cesira che salta su una gamba e Mela, la gatta, sull’altra. E Ettore, minuscolo, in mezzo. Cesira non fu lasciata mai sola, stava sempre con noi, ovunque andassimo. Aveva anche un’amica, Polpetta, il cane di Patrizia (una barboncina grigia) che veniva a chiamarla e poi se ne andavano in giro per Somaini. Adesso è anche lei sepolta, qui in Sabina, sotto il noce. Ogni volta che ci passo la saluto. È umano, instintivo e spontaneo. Da quattro anni viviamo in simbiosi con Zoe, una lagottina pazza e simpatica, anche lei sta sempre con noi, al lavoro o in vacanza. Adora stare ore intere a scrutare il raggio di sole che entra dalla finestra, aspettando il passaggio dell’ombra di un insetto, cui dare la caccia, all’ombra, non all’insetto. L’insetto non le interessa. E da qualche anno abbiamo un esodato, un ospite inatteso: Mario, un pastore tedesco abbandonato che ci ha scelto come ultimi compagni di vita. Mario è vecchio, da due anni non ci vede più e da un po’ di mesi è anche sordo, ma ci tiene a fare bene il suo lavoro, che è difendere la casa, noi e ovviamente Zoe. Perché odio i cani? E vi sembra che li odio?

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