
Era febbraio 1975, ci stavamo trasferendo in via Revere, a Monteverde Vecchio, in una strana costruzione dei primi del ‘900, un villino circondato da un grande giardino pieno di palme e alberi da frutto. Il giardino era sopraelevato di quattro, cinque metri dal piano stradale, e la costruzione, che si trovava oltre 15 mt dal muro di cinta, era veramente distante da sguardi indiscreti. Un luogo in cui si poteva godere di un estrema privacy. L’affitto stranamente conveniente, unito a queste caratteristiche, ce la fecero scegliere tra tante proposte. Capimmo quasi subito le ragioni degli sguardi tra il curioso e il malevolo del vicinato. Proprio i primi giorni ci venne ad aiutare Adriana, un’amica di Daniela, anche lei una ragazza friuliana, alta, bionda, occhi chiari, sorriso contagioso. Ovviamente, durante il trasloco, lasciavamo aperto il cancello su strada e le porte di casa spalancate… salì un tizio, un signore sulla cinquantina, si affacciò in casa tra le cataste di casse, mobilia e bric a brac e, rivolto alle due ragazze pronunciò “siete voi due le nuove?” restammo di sasso. Al principio non capimmo, ma ci volle un attimo: la casa era stata proprio una “casa”, ma chiusa, un bordello, insomma. Il tale comprese che tutto era cambiato, che la “casa chiusa” non esisteva più, si scusò e, un tantino imbarazzato, se ne andò alla svelta. Il giorno successivo, però, mentre stavamo portando su casse dal camioncino e, ovviamente, avevamo come sempre tutte le porte aperte, entrò un ragazzotto, giacca, cravatta e paltò, atteggiamento aggressivo e linguaggio che tradiva poca frequentazione con un italiano pulito. Cominciò a dirci “bella casa, complimenti”, per poi continuare “questo quartiere non è mica tanto tranquillo, sapete?” e ancora “rubano, minacciano… insomma ve serve proprio un’ assicurazione… contro i furti, le rotture di coglioni…” A leggerlo può sembrare un discorso da assicuratore, qualcuno che sta proponendo una polizza, ma l’atteggiamento del ragazzotto non era per niente tranquillizzante. Feci finta di non capire e lui ricominciò da capo, ma più esplicitamente e capii: pensava anche lui che stessimo per riaprire il “Villino Malincontri”, un bordello, ed era lì per avere la sua parte, una tangente, un “contributo” mensile. Avrei potuto spiegargli che no, non avevamo nessuna intenzione di riaprire, che non eravamo in quella “attività”, che se non se ne fosse andato avremmo chiamato la polizia, i carabinieri, invece scelsi un’altra strada, una scorciatoia, un metodo più immediato, esplicito e chiaro, per fargli capire che aveva sbagliato, che non eravamo soggetti da spremere senza rischi. Continuando a fare il finto tonto entrai nell’altra stanza al piano terra e, senza farmi troppo notare, presi la Glisenti, una pistola a tamburo, arma da guerra che avevo trovato in campagna tra Lanuvio e Genzano cercando altro, e che avevo restaurato perfettamente. Tra l’altro era carica, sei colpi di grosso calibro,10,35 mm. Me la infilai nella cintura, dietro la schiena e tornai di là. Sempre da finto tonto gli dissi educatamente ed in buon italiano “scusa, ma non ho capito…” non mi fece finire la frase e divenne subito più aggressivo e tremendamente esplicito “qui dovete da pagà, hai capito, dovete pagàaaa, sinnò famo n’casino, te sventramo casa, se famo le du rigazze, se le portamo via…” Non mi lasciava altra scelta, aveva sbagliato ad alzare la voce, a minacciare, a entrare in casa nostra e se ne accorse. Tirai fuori la pistola e tenendola all’altezza dell’ombellico lo minacciai apertamente… e lui spavaldo “e che fai, spari? E dajie, provace…che te credi, che c’ho paura de…” non finì la frase, “ sì,” gli sibilai e tirai tre colpi, in sequenza veloce e ad una distanza così ravvicinata… ero sicuro di non sbagliare. Tirai a non prenderlo, ovviamente, un colpo alla sua sinistra e due a destra, in modo da “suggerirgli” la direzione da prendere. Gli bucai la giacca, il cappotto e purtroppo i mobili accatastati dietro lui… uscì come speedy gonzales, il topo, prese di corsa le scalette che portavano in giardino, gli esplosi dietro altri due colpi, inciampò, cadde sull’ultimo gradino, prese in pieno il mandorlo, si rialzò velocemente e si precipitò verso l’uscita. Tirai il sesto e ultimo colpo, sempre a colpire vicino. Non tornò mai più. Un mese dopo buttai a Tevere la pistola, era uscita la Legge sulle armi e soltanto possederla poteva portarmi in galera. A lungo. E poi non avevo altre cartucce.