Un mare de morchia

Avete mai fatto sega a scuola? E poi, lo facevate per evitare un’interrogazione, oppure solo per fare qualcosa d’altro, che ne so, andare al mare, al bowling? Io, ai tempi del liceo, facevo spesso sega, però stranamente invece di andarmi a divertire da qualche parte, mi imbucavo spesso in una classe di un’altra scuola. A volte dagli Scolopi, al Calasanzio di via Cortina, in cui la maggior parte degli studenti erano amici, e dove mai nessun professore si accorse della mia clandestina presenza. Più spesso, invece, mi imbucavo all’Artistico di via Ripetta, che, resti fra noi, era un vero casino, molto, ma molto informale, e in quella bolgia era impossibile che un insegnante si accorgesse di me. L’atmosfera, ecco, mi piaceva l’atmosfera: era davvero frizzante, e le lezioni fantastiche, interessanti e le ragazze, anche loro interessanti, molto simpatiche e carine. Sì, in quelle frequentazioni, erano i mitici anni ’60, mi feci davvero tanti amici, come Tommaso, oggi un affermato artista di livello internazionale, che è ancora convinto che io abbia frequentato, insomma “fatto” l’Artistico come lui. Certo, seguivo spesso le lezioni, ero sempre lì, e poi ero attento, le seguivo davvero, mica ci andavo per fare casino. Neanche mi passava per la testa. Potrei dire di aver messo più impegno io di tanti iscritti, che invece erano sempre distratti, erano lì per caso, a fare chiasso, a chiacchierare, passare il tempo. Sono sicuro che un certo gusto per la composizione, un indefinibile passione per il riciclo di materiali di scarto da trasformare in oggetti di diversissimo utilizzo, sia originato lì, in quegli anni, in quella scuola. Chissà perché optai per lo Scientifico, forse solo per evitare il greco, anche se poi la matematica, la chimica e la fisica, no, proprio non le mandavo giù.. Ok, non divaghiamo, torniamo alle assenze da scuola. Certo a volte facevo anch’io sega per divertirmi, per andare al bowling, ma anche al mare, come quella volta che con Alberto decidemmo di andare a Civitavecchia, era ormai giugno e il mare ci attirava. Ma come andarci senza un mezzo? Prendemmo “in prestito” il motorino di un nostro amico che abitava in via Valdagno, lui lo lasciava in garage, ben lucchettato, aveva paura che glielo fregassero, e quindi andava a scuola in autobus. Era come una piccola Harley, tutto cromato, manubrio largo, serbatoio focato, fichissimo davvero. Avevamo a disposizione tutta la mattinata, lui non sarebbe rientrato prima delle due. Sull’Aurelia, nella corsia opposta un paio di Carabinieri in moto ci notarono, eravamo in due su un cinquantino… ma lasciarono perdere. Arrivati a Santa Marinella ci buttammo in mare, appena in tempo per finire nella chiazza di gasolio di una nave che aveva deciso di lavare i serbatoi. Ridotti uno schifo, con i capelli impomatati di morchia, tutti unti e schifosamente puzzolenti ci pulimmo come possibile, e, sempre impomatati, ci rimettemmo in viaggio, per rientrare. Ovviamente, questa volta, i Carabinieri ci fermarono. Alberto, che aveva insistito per portare il motorino, riuscì a fermarsi solo dopo una cinquantina di metri oltre il posto di blocco. Era terrorizzato, il padre, colonnello, era assai severo. Lemmi lemmi andammo verso i due carabinieri. Non avevamo documenti, in due sul motorino, che tecnicamente avevamo “rubato”, anche se lo consideravamo un “prestito involontario”. Fortuna volle che il nostro aspetto, oltre ai nostri abiti (jeans a tubo, maglietta di un’università americana, cappellino da baseball NYY, All Star ai piedi) e i nostri sguardi smarriti fecero credere ai due Carabinieri di trovarsi davanti a due studentelli yankees. L’offerta del dollaro d’argento che avevo in tasca, oltre alle frasi di rito, che erano tutto l’inglese di cui ero capace “ai chen ghet no satisfescion, tichet to raid, ai chen control mai self…”  Li convinsero del tutto “… m’anvedi che tipi, questi non capiscono un ca… d’italiano, andate via, andate viaaa” ci dissero spingendoci verso la moto. L’avevamo proprio scampata bella.

C’è un epilogo: l’ultimo giorno di scuola andai, come tante altre volte, a dividere il banco (che non era ovviamente il mio banco) nella classe di Alberto al liceo Classico (che non era il mio liceo) e decisi che mi sarei preso un ricordo di quella scuola, il piano del banco su cui avevo anch’io passato tanto tempo. Istoriato da generazioni di studenti, coperto di tracce, scritte, disegni sembrava proprio una stampa cinese. Uscii con il banco sotto il braccio, nessuno mi fermò, a nessuno sembrò un banco di scuola. Adesso è un ready made, appeso in casa, una cosa preziosa da lasciare ai posteri.

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