Rua Silvia 418, São Paulo, Brasil

Nossa casa, mamãe, Paolo e a gangue

Casa nostra era in un quartiere verde, abbastanza vicino alla Avenida Paulista. A 50 metri, all’angolo con rua Ribeiron Preto, cresceva un grande albero di jaca che produceva dei frutti  enormi, che quando erano maturi cadevano sul marciapiede lasciando una guazza scivolosa e piena di insetti. Nessuno sano di mente passava lì sotto quell’albero, in quella stagione. Noi ragazzini invece sì. Andavamo a raccoglierne i semi sparsi ovunque, duri e lisci, una specie di grossi fagioli con cui facevamo collane, oppure, a mo di sassi, li lanciavamo con le fionde, dentro le finestre aperte di qualche casa lì vicino.  Ero dispettoso? No ero compresso, supercompresso. E reagivo, a volte con risultati disastrosi. Il fatto era che i miei genitori erano, soprattutto mamma, artisti di successo, di grande successo in quegli anni in Brasile. Ogni giorno più o meno all’alba si alzavano e andavano alla sala prove del Ballet di IV Centenario, dove mamma iniziava gli esercizi propedeutici, per poi proseguire con le prove degli spettacoli. Mamma era non solo l’etoile, la prima ballerina, ma anche l’alter ego di Aurelio Millos, il suo braccio destro, la sua assistente. Tutta una serie di gravosi impegni totalizzanti. Nel frattempo papà, che era scenografo, si occupava del suo incarico con il team che curava l’aspetto scenico e funzionale degli spettacoli. E io? Ragazzino di quattro, cinque anni, cosa potevo fare io? Sì ok, la scuola, l’asilo, che era vicino casa, proprio dove finiva la discesa di rua Ribeiron Preto, lo ricordo ancora benissimo. In cortile, appena dentro il cancello, c’era un albero di jabouticaba con i suoi deliziosi frutti simili ad acini d’uva attaccati direttamente sul tronco, senza picciolo. Mi ci portava la Rita, la nostra giovane, bellissima baiana di 18 anni, e poi mi veniva a riprendere quando era l’ora. Adoravo la Rita, era sempre sorridente, simpatica, allegra, con quei suoi vestiti tradzionali coloratissimi e quella specie di turbante in testa. Rita aveva un sacco di corteggiatori, tutti muniti di camion. C’era quello delle consegne, quello dell’immondizia e poi il mio preferito, quello dei pompieri, che arrivava con il suo camion tutto rosso e cromato. Mi metteva al posto di guida e mentre io fingevo di guidarlo “bruum, bruuummm” loro si baciavano appassionatamente. Io li vedevo ovviamente, ma cosa poteva importarmi, stavo guidando! A casa, invece, la situazione era assai diversa. I miei, proprio perché non avevano tempo per la mia educazione, avevano assoldato un’istitutrice, Donna Gilda, un’italiana con un sacco di referenze, una donna terribile, ma loro non potevano rendersene conto. Donna Gilda usava metodi drastici e convincenti. Se poco poco rispondevo in un modo che a lei non piaceva, mi faceva lavare i denti e la lingua, seduta stante, con spazzolino e saponetta; se ero troppo vivace metteva del sale grosso sparso sulle scale che portavano al piano di sopra e me le faceva salire e scendere, in ginocchio, con i calzoncini corti, più e più volte. Ribellarsi? Dirlo ai miei? Ero troppo terrorizzato per riuscire. E poi a tavola, quello che era nel piatto, qualunque cosa fosse, dovevo mangiarlo, senza storie, fosse verde, giallo o blu, puzzolente o profumato. Un giorno portai a casa un pulcino, vinto ad una fiera, lo mettemmo nel cortiletto. Io mi ci affezionai, gli davo da mangiare, lo accarezzavo, ci parlavo. Il pulcino crebbe, divenne un galletto, un pollo. Lei decise che era cibo, e che era arrivata l’ora di cucinarlo. Mi costrinse ad assistere all’esecuzione, e poi a tutto il resto. Ero scioccato e la sera il pollo era a tavola, bello e cucinato. Quella sera, eccezionalmente, c’erano anche mamma e papà. Mangiammo, anch’io ne mangiai, quasi piangendo. Mamma se ne accorse e chiese…”ma questo pollo, da dove arriva?” Rita, che l’aveva cucinato, e l’altra domestica brasiliana che l’aveva ucciso lo dissero. Mamma saltò su tutte le furie, capirai, durante la guerra, a Roma, avevano due galline cui davano del cibo ogni giorno, come fossero i gatti di casa, e non le mangiarono nonostante la fame che c’era in quei tempi tremendi. Gilda rispose che era una questione educativa: ”un pollo è cibo, non un animale da compagnia, quindi va ucciso e mangiato, è bene che Enrique (mi chiamavano così) sappia distinguere le due cose”. La discussione continuò ancora per poco, poi come è ovvio terminò, e io il giorno successivo restai in castigo, per conseguente vendetta trasversale. Donna Gilda non accettava critiche. Ho sempre creduto, da grande, che fosse una nazista scappata dopo la guerra, una nobile genovese, come diceva di essere, implicata in chissà cosa, e riparata laggiù, in sudamerica. Tra le tante cose cui mi costringeva c’era la proibizione assoluta a manifestare sentimenti, a gesticolare, a rispondere a tono. Per fortuna mi insegnò anche tante cose che in qualche modo ritengo ancora positive e utili, come, ad esempio, evitare qualsiasi accenno di volgarità, sia nel linguaggio che nel comportamento. Non vi racconterò altro su Donna Gilda, pensate che ho migliaia di foto di quegli anni e neppure una foto di quella nefasta signora. Ah, per dirvi quanto fosse stato profondo il condizionamento che ho dovuto subire, la prima volta che dissi una parolaccia, per la cronaca “cretino”, avevo ormai diciotto anni e, nel dirlo, arrossii come un’educanda.

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