
Erano anni alternativi, molto alternativi, anche troppo. Chi comprava casa a Calcata con i soldi con cui avrebbe potuto comprare un Ciao, usato ovviamente, alla ricerca di una solidarietà inesistente, chi, per il Nirvana, andava fino in India e poi restava lì a meditare, a farsi di gangia. E c’era pure chi tornava alla terra, ad accudire la campagna, gli animali da cortile, l’orto, alla disperata ricerca di una genuinità di vita perduta da secoli: l’Arcadia. Il successo, evidentemente, non ci attirava, era stata la molla che aveva messo in moto i nostri genitori, e noi, noi…eravamo diversi. Quanto diversi, l’avremmo scoperto con gli anni, andando avanti nella vita, tagliandoci i capelli, indossando abiti più consoni alle situazioni, caricandoci di responsabilità, impegni. Subendo, purtroppo, le immancabili delusioni e ritrovandoci, alla fine, praticamente identici a loro. Ma intanto andavamo in giro facendo cose, vedendo gente, insomma, tiravamo a fare tardi. Nella vita, ovviamente. Ma nel frattempo le giornate iniziavano comunque ad essere impegnative, faticose, anche se non propriamente di lavoro, e noi tutti, di conseguenza, avevamo bisogno di relax, di uno “stacco” e per svagarci dalle ”immani” fatiche della settimana lavorativa ci restava solo il week end, si, il fine settimana, in cui era obbligatorio combinare qualcosa. “Che fine ha fatto Pino? …Pino chi, il minicapelloncino?… Si, lui Boh? E chi lo sa” più o meno questo era il tema, rintracciare qualcuno da andare a trovare, meglio se stava lontano, in campagna, così un bicchiere di vino, una salsiccia, un piatto de fettuccine…ci poteva scappare. Alle volte andava bene, in altre meno. Un certo fine settimana, con Cri (io ero tra quelli che si erano inguaiati presto) decidemmo di andare a trovare un suo amico che si era spostato, trasferito armi e bagagli nella campagna toscana, vicino Siena. Un viaggio. Arrivammo che era quasi l’ora di pranzo e lui, visto che era domenica, aveva altri ospiti. Un bel casale in pietra, ben tenuto, curato fin nei dettagli. Un lungo tavolo di legno sotto la cerqua, (la quercia in Toscana si chiama così), le panche fisse tutt’intorno, un barbecue scoppiettante. Cani da caccia che sgambettavano ovunque supereccitati dall’occasione. Il padron di casa, Rick, era un ragazzo “ammericano”, del Texas, la grigliata domenicale un rito obbligato, fissato nel suo DNA e noi eravamo ben contenti di essere lì, in quel momento, ed essere parte del tradizionale rituale etnoUSA, meravigliosamente imbastardito dall’ottimo Chianti che subito ci proposero. Più o meno saremo stati in quindici in quel tavolo, tutti sufficientemente brilli già prima di mangiare, grandi risate, un tale che con la chitarra strimpellava canzoni anarchiche locali… arrivò la carne, ottima, e le immancabili salse “americanstyle”, che però evitai accuratamente, la carne chianina era già buona così, sale & pepe. E basta. La cosa strana, che contrastava con il resto della casa erano i piatti di metallo su cui dovevamo mangiare: erano inchiodati alla tavola. Ma come li pulisce, ci chiedemmo, li sfila da sotto? Lo scoprimmo presto. Quando ormai tutti ci eravamo alzati da tavola, fece un paio di fischi, i cani arrivarono di corsa, saltarono sul tavolo e leccarono avidamente, eccitati come indemoniati, i piatti inchiodati al tavolo. Lui sorrise, li aveva addestrati così bene…con il tubo per annaffiare lavò il tavolo, e, appena più accuratamente i piatti. Era ancora alternativo, nonostante l’aspetto e la casa. Non lo andammo più a trovare, già, chissà perché?