La kapparbonara

La cipolla o l’aglio nella Amatriciana e magari pure la pancetta al posto del guanciale e pretendi pure di saper cucinare? Ed ecco, partono gli insulti, l’anatema, la presa in giro pesante, insopportabile. Come se le ricette fossero delle verità rivelate, immobili nei secoli, immutabili, e non frutto di casuali intuizioni, di contaminazioni etniche, di semplici arrangiamenti. Adattamenti, ecco cosa sono in certi casi. Il talebano alimentare, l’ultraortodosso in cucina non sanno cosa si perdono restando ancorati alle cosiddette “tradizioni”. La Carbonara. Già, questo classico primo piatto è proprio il frutto casualissimo di un incontro tra un carbonaio di vicolo Osti e le truppe USA in stanza a Roma subito dopo la Liberazione. Non ci credete? Non importa, tanto per me parlano i fatti. Dovete sapere che quando sono tornato in Italia, era il 1960, con i miei genitori avevamo preso casa in via della Vetrina, proprio accanto a via dei Coronari, che tra parentesi non era ancora la strada degli antiquari, ma la strada dei robivecchi, degli “anticaija e petrella”. Una bella casa con tante grandi finestre che davano sui giardini di villa Taverna. Era una casa spaziosa resa ancora più accogliente da mio padre, architetto scenografo. Avevamo appena perso tutto, tutti i soldi voglio dire, ma rimaneva ancora tanto, intatto il talento, il gusto delle cose belle, la capacità tutta italiana di saper commutare quello che si ha a disposizione, per poco che sia, in un’eccellenza invidiabile e infatti invidiata. Era appena nato mio fratello e, anche se avevamo una domestica, mamma chiedeva a me di andare a fare la spesa. Sapeva bene che ero implacabile nello scegliere, frugando tra frutta, ortaggi e verdure. Avete presente, spero, quel triangolo tra il bar del Fico e il bar della Pace? Ebbene era proprio lì il mercato rionale, aperto ogni giorno fino alle 14. Io mi muovevo con disinvoltura tra i banchi, scegliendo caparbiamente i pomodori migliori, le verdure più fresche, la frutta più integra e saporita. “E no, se tocchi tutto, se smucini tutto in quel modo, poi chi si li pija i tuoi avanzi?” era il minimo che mi dicessero le donnone con il grembiule nero che gestivano i banchi. Ma non mi facevo certo intimidire da loro “ma questo è su fijo, signò?” disse una volta una vignarola a mamma “è tremendo, smucina tutto, scejie e poi discute pure sur prezzo e se je dici quarcosa te soride, ma mica smette, sà, nun smette, insistisce, eccome se insistisce”. In quella zona di Roma, allora, vivevano personaggi veri, ladri, raccoglitori di cicche, c’erano addirittura gli affitta sedie, affittavano a giornata sedie normalissime a chi, evidentemente, aveva le sedie contate e se doveva avere qualcuno a pranzo o a cena… appunto. Un bel campionario di varia umanità, tutti pronti a raccontare mucchi di storie, storie autentiche, di vita vissuta, di fatica, di come avevano vissuto il dopoguerra. Non era possibile raccontare panzane, chi lo faceva era immediatamente sbugiardato dai tanti in strada. Tutto avveniva in pubblico, davanti e accanto a tutti. Era, insomma, un quartiere vivo, molto vivo, certo non molto chic, ma era un mix di genti, di ogni ceto, politici, professionisti, nobili e plebei, plebe vera, gente che non aveva neppure il bagno in casa, che per liberarsi dagli escrementi lanciava il contenuto dei pitali in strada, dalla finestra, ovviamente durante la notte. Ed era usanza parecchio condivisa accumulare le cose vecchie, bottiglie, piatti rotti, vecchi lavabi, insomma la qualsiasi, per poi liberarsene alla mezzanotte del 31 gennaio, lanciando tutto dalla finestra. Nessuno sano di mente girava per quelle strade in quelle occasioni di festa. E la mattina del 1 gennaio la strada sembrava un percorso di guerra. A pochi passi da via della Pace, tra vicolo Osti e vicolo Montevecchio, proprio sull’angolo, c’era allora un carbonaio, Federico si chiamava, ci andavo a ordinare la legna, i saponi, e altre poche cose. Mi ricordo bene il posto, in una confusione indescrivibile su una vecchia seggiola impagliata e sghemba sedeva un tipo, un vecchio decrepito ai miei occhi di dodicenne, credo avesse almeno 70 anni, che quando arrivavo si alzava faticosamente e, zoppicando un po’, si faceva avanti “buonasera signorino, di cosa abbiamo bisogno?” Poi, mentre scriveva su un fogliaccio l’ordine che mi aveva passato mamma, iniziava a raccontarmi le sue storie di quando, subito dopo la guerra, si industriava a fare cose di ogni genere. In una di queste occasioni mi raccontò che, avendo a disposizione legna e carbone, pensò bene di cucinare qualcosa per i soldati alleati di passaggio, gli unici “turisti “ che si avventuravano per quelle strade a quei tempi, e cominciò a fare una pasta, la sola possibile, con il cacio e a volte addirittura con il pepe, se riusciva a trovarlo. Si accorse presto che i soldati,  americani soprattutto, mescolavano il contenuto di una scatoletta, la famosa “razione K” (bacon and eggs), alla pasta. Incuriosito l’assaggiò, “non  male, posso fare di meglio” pensò tra sé e sé, e poi provando e riprovando con sua figlia, riuscì a migliorare la ricetta, a darle una dignità. La figlia, poi, aprì una trattoria proprio lì a fianco, poco più di una bettola, vini dei castelli e qualche cosa, quel che passava il convento. Una specie di vino e cucina, senza neppure l’insegna. Poi, negli anni divenne “La Carbonara”, cioè la figlia del carbonaio, presumo. Indovinate un po’ per cosa divenne nota? Questo me lo raccontò Federico stesso nel 1960, io avevo 12 anni, perché non avrei dovuto credergli? Un paio di altri altri vecchietti erano sempre lì e confermavano i suoi racconti, addirittura aggiungendo altri particolari. Peccato che all’epoca io non abbia fotografato il carbonaio, e neppure la trattoria, che era ancora lì accanto, con la solita Leica di papà con cui andavo in giro facendo foto. Ma che ne potevo sapere io della carbonara?

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