Volpi

Abitavamo ancora dalle parti di via Cortina, tra boschi e valli e quell’anno ci mettemmo in testa di prendere una volpe. Viva, ovviamente. Io e Marc, il mio amico americano, abitavamo a Via San Zeno, nello stesso palazzo. Ci sentivamo capaci di qualunque impresa, invece eravamo solo due adolescenti discoli e intraprendenti, come tanti. Suo padre era un militare USA e lavorava all’Ambasciata, a via Veneto, e noi due trascorrevamo giornate intere nella valle che sta tra via della Mendola e via Camilluccia cercando di fare qualcosa di assolutamente fantastico, come catturare una volpe, ma a mani nude. Per farci cosa non si sa, non era una domanda che ci eravamo posti. Nel frattempo altre catture ci aspettavano alla base di un bosco che terminava sulla Camilluccia, dove il terreno era gonfio di acqua, come una spugna, da cui sgorgava estate e inverno un rigagnolo di pochi centimetri, e lì, sul bordo, una serie di buchi con un montarozzo di terra tracciato di strane impronte segnalava la presenza di qualcosa di vivente che lo abitava. I buchi erano pieni d’acqua il che escludeva animali che hanno bisogno di respirare. Incuriosito come non mai, e deciso a svelare il mistero, presi coraggio e infilai il braccio nel buco fino al gomito. Nel fondo il proprietario della tana non fu entusiasta della mia presenza, della mia mano in casa sua e con le sue grosse chele mi dedicò un paio di terribili pizzichi sulla punta delle dita. Che comunque non bastarono a dissuadermi e lo tirai fuori. Un granchio grigioverde, un granchio di terra, che a Roma, tra palazzi e ville, abitava la base umida di un boschetto. Da non crederci. E non era neppure solo, erano una colonia, tanti granchi. Li prendevamo e ci giocavamo un po’ per poi rilasciarli nello stesso buco da cui li avevamo presi. Nessuno credeva alle nostre catture, ovviamente “Granchi di terra? A Roma? Cazzari, inventatevene un’altra” era il commento più gentile che riuscivamo a raccogliere. Una volta, per fare il fico, ci portai una ragazza, una mia amica siciliana che esclamò stupita “mii…diàvulu… u granciu, eppure ranni..” e poi insistette molto perché ci portassi pure la sorella, che già conoscevo, e per cui avevo un debole… una tentazione vivente, ma non mi feci incantare, non cedetti alle lusinghe. Avevamo in mente prede più ambite delle ragazze, le volpi, che quando ci incontravano fuggivano rapide, senza neppure farci gli occhi dolci. Fuggivano, e proprio questo ci attirava, ma prenderle…una parola. Finchè un bel giorno eccone una, a due metri da noi, distratta non ci aveva visto. Si girò di scatto e fuggì, per rifugiarsi nel primo buco disponibile, una tana corta, appena abbozzata da un’altra bestia, una tana dove non poteva entrare tutta e lasciò fuori la sua bella, lunga coda. Marc, arrivando prima di me, la prese con entrambe le mani, puntò i piedi e tirò con forza. E si ritrovò con una volpe appesa a pochi centimetri dal corpo, una volpe spaventata e incazzatissima che per liberarsi iniziò a roteare, scalciando e mordendo il bel giaccone di pelle di Marc, quello invidiato da tutti, il giaccone da pilota di caccia, e lui, con il giaccone lacero e la pancia sanguinante per le zampate mollò la presa. Quella fuggì, le volpi non sono farfalle, lo sanno tutti. Ma vuoi mettere l’emozione di avere una volpe tra le mani? Dovevamo per forza averne un’altra e cambiammo strategie: avremmo usato una rete. Trovammo una tana di volpe, in una vallata dell’insugherata, quasi sul cucuzzolo di una collinetta ai margini del bosco, tra le radici di un nocciolo e i cespugli di macchia mediterranea. Cercammo di stanarla con ogni mezzo, con la rete pronta per la cattura, ma ogni tentativo fallì. Arrivammo a gettare dentro la tana delle palle di zolfo incendiate, con il risultato di far uscire dal buco tutte le sue pulci, ma non lei, la volpe furbescamente non si fece vedere. Passammo ore in mezzo al prato a toglierci da dosso tutte quelle orribili pulci, nudi come vermi. Catturare la volpe, però, era ormai il nostro chiodo fisso e quindi, forti delle nostre competenze in materia, decidemmo di cambiare metodo, scegliendone uno drastico, molto drastico e anche tanto stupido: l’esplosivo. Sapevo come fare una miscela esplosiva con comuni detersivi, ma Marc era più competente di me, sapeva fabbricare la nitroglicerina, e aveva gli ingredienti, quindi quel dannato giorno andammo sul posto, e nascosti tra i noccioli iniziammo a preparare la cosa. Sapevamo bene che l’esplosivo era pericolosissimo, instabile e che il minimo errore l’avrebbe fatto esplodere e noi non avevamo alcuna intenzione di finire a brandelli. Tutto era pronto e nella stessa valle due grossi tronchi giacevano in terra poco lontano, ci saremmo rifugiati lì ad aspettare il botto. Aprimmo la valvolina che, facendo gocciolare uno degli ingredienti, avrebbe causato l’esplosione e scappammo velocemente al riparo dei tronchi. Ore dopo non era ancora successo nulla, e stremati di noia, stavamo quasi per andare a vedere cosa fosse successo quando accadde. Una tremenda esplosione riempì la valle di una sassaiola mista a terra e pezzetti di albero. La collina dove avevamo messo l’esplosivo, non c’era quasi più, come se un essere gigantesco con un morso le avesse tolto il fianco. La nostra miscela era esplosa, e con lei parecchie vetrate delle case più vicine. Lo scoppio, lo spostamento d’aria, ci aveva anche reso sordi, guardandoci intorno spaventati fuggimmo nel bosco, verso via Cortina, verso casa. Poco dopo un elicottero della Polizia si mise a sorvolare la zona, e fummo costretti a restare lì, nascosti nella boscaglia, fino a notte. I giornali dissero che era esplosa una bomba d’aereo dell’ultima guerra, e forse era andata davvero così, forse il nostro esplosivo aveva solo fatto deflagrare un residuato inesploso del bombardamento del 25 maggio 1944. Della volpe, ovviamente, nessuna traccia.

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