
Un figlio ti cambia la vita! Già, succede che venga fuori questa esigenza, questo bisogno impellente di cambiare vita. Che diamine, siamo umani, mammiferi e un figlio è un figlio, una freccia lanciata nel futuro, ad occhi chiusi. Siamo poi sicuri che sia una buona idea? “Stai mettendo al mondo un orfano” mi disse il mio antico amico Stefano. Sì, è vero, ma, pensai io, siamo tutti orfani, prima o poi. “Tra l’altro sta cazzata di fare un figlio l’hai già fatta” continuò Stefano “e non ti ricordi com’è andata, quanto ci avete sofferto?” Sì, è vero, avevo già dato, avevo già avuto un figlio, nel 1970, quando ero giovane, un’esperienza che avevo preso alla leggera, troppo alla leggera, ma della quale mio figlio ha dovuto portare poi l’intero peso. Ma in quegli anni, con tutta la vita davanti, con una donna che adoravo, un figlio ci stava, volevamo cambiare il mondo, no? E allora andiamo, facciamo crescere una nuova generazione di sognatori, costruiamo un mondo migliore, nuovo, “strawberry fields forever” e “across the Universe” cantavano i Beatles in quegli anni, “I pensieri serpeggiano come un vento irrequieto dentro una cassetta delle lettere, niente è reale”, e allora smettiamo di sognarlo questo mondo nuovo, mettiamoci d’impegno, realizziamolo. E adesso, adesso che abbiamo la certezza che un “mondo migliore” sia in realtà un utopia, che i sogni perlopiù restano sogni, adesso, sul filo dei miei sessant’anni, ci si può ancora ritrovare a fare le stesse scelte, le stesse decisioni, gli stessi sogni? Certo che sì, perché “Time is on my side”, non si può sempre rinunciare, sempre dire di no, neppure a se stessi e quindi, come Quinto Fabio Massimo “Cunctator”, il temporeggiatore, mi diedi del tempo. “A Roma no, mai, ma ci rendiamo conto di cosa vuol dire mettere al mondo un figlio con questa attività che abbiamo in piedi, con questa frenesia cittadina, come potremmo occuparcene, farlo stare bene con tutto lo stress che comporta la nostra attuale vita? Un figlio ha bisogno di genitori che abbiano tempo da dedicargli, genitori rilassati, calmi, un ambiente sereno… sono sicuro che se riuscissimo a cambiare tutto, a spostarci in campagna…” Il pensiero di cosa avrebbero scatenato queste parole neppure mi aveva sfiorato, non avevo messo proprio in conto che avrei suscitato in Paola la sublimazione, freudianamente parlando, di un desiderio, di un’idea, in un fatto vero, concreto. Ma da quel giorno ogni minuto libero fu dedicato alla ricerca dell’eremo, dell’altro luogo dove rifondare la nostra esistenza, il nostro piccolo “mondo nuovo”. Battemmo palmo a palmo la campagna, girando a spirale intorno Roma, dalle periferie dove giacevano, e giacciono ancora, dozzine di costruzioni abbandonate, suggestive e interessanti, fino ad arrivare alla campagna tra Boccea e Testa di Lepre e a quella tra la Pontina e Trigoria, terreni, casali e stalle in totale abbandono, campagna bellissima, fertile e soprattutto vicina. Niente da fare, è tutto di un Istituto che preferisce lasciar marcire i campi e crollare i tetti, piuttosto che affidarli, ricavarne un utile. Anzi, una volta, un prete di quelli veri, un prete combattivo, sempre a favore dei disagiati, ci disse sconsolato “ Lasciate perdere, è tutto del Pio Istituto… pio, avete capito? Non dò.” E dicendolo compì un largo gesto con il braccio destro, a significare il gesto di raccogliere, prendere. Scoraggiato, ma non vinto arrivai a parlare con l’addetto del Comune che gestiva il patrimonio immobiliare, visto che tante costruzioni abbandonate risultavano, o almeno così mi dicevano, proprio del Comune di Roma. “Non abbiamo un elenco completo e organizzato delle proprietà comunali”, così mi rispose. Incredibile, il Comune non sa cosa possiede, pensai interdetto, ma il dirigente continuò “se trova qualcosa che confà alle vostre esigenze lo occupi pure, poi vedremo come regolarizzare e contrattualizzare l’immobile”. Restai basito, come potevo trasferire lo studio, settecento metri quadri di attrezzature, in un immobile abbandonato senza prima restaurarlo e soprattutto senza essere certo al “centounopercento” di poterci restare. Lasciammo perdere, andammo oltre e ci dedicammo alla Sabina, quasi un “ritorno a casa”, visto che mio nonno Enrico, l’inventore, aveva una fabbrica dalle parti di Fara. E noi adesso siamo qui, felici genitori di un Sabino, di un Monteleonese ad essere precisi. Certo che…