Suicidi

Carlo, il web manager/addetto stampa in mutande e cappotto.

Lavorando, può accadere di tutto, anche essere trascinati in un processo. Come è accaduto a me nel 1997, portato in Tribunale a Milano dall’accusa di aver causato un danno commerciale ad un fabbricante di orologi che si è visto danneggiato dalla head line da me utilizzata nell’ultima Campagna Pubblicitaria della Nice Watches ”Il primo e unico orologio in sughero”. Evidentemente non era vero, come avevo detto più volte ad Andrea, il titolare della Nice Watches, “questo non possiamo affermarlo, vedrai ci faranno storie, passeremo un guaio, la tua è solo una fissazione, cosa aggiunge essere il primo e unico, non ti basta vendere milioni di orologi?” Ma lui niente, irremovibile. Il successo gli aveva dato alla testa, era pervaso da un senso di onnipotenza, credendo di essere davvero “unico” e pure “invulnerabile” e insisteva per ribadire nella Comunicazione questa unicità, il suo primato. Alla fine arrivò a pretenderlo “sono io che pago!” e l’ebbe vinta, uscì la campagna tutta basata su questa head, così sbagliata e rischiosa. E puntuale arrivò il guaio, una quisquilia, una cosetta da nulla, solo la richiesta di danni da parte del suo concorrente: un miliardo di Lire e una denuncia al Gran Giurì. Certo, il concorrente era piccolo, forse neppure arrivava a fatturare la cifra che pretendeva, ma era difeso da un fetente d’avvocato parecchio esperto in materia, e sicuramente ci avrebbero condannati. E cosa fa il titolare dell’azienda, il mio cliente, per  evitare la condanna e dover pagare? Trova una facile soluzione, mi addossa vigliaccamente tutta la responsabilità della Campagna, ma soprattutto della “head line” da lui fortemente voluta, anzi, imposta. Un miliardo di Lire, come avrei potuto pagare l’ammontare della richiesta di danni? Inoltre la sede del dibattimento era stata decisa dalla controparte, a Milano, dove si sentiva forte. E se mi avessero condannato…?  Non osai pensarlo. L’udienza era stata fissata per la mattinata, in un orario comodo che mi avrebbe permesso di viaggiare in treno, il famoso Pendolino che in neanche 4 ore riusciva a coprire la tratta Roma – Milano. Avevo un buon margine di sicurezza e un asso nella manica, ero abbastanza tranquillo, preparato ma il diavolo, come spesso accade, ci mise la coda, usando un disperato che tra Lodi e Melegnano pensò bene di farla finita buttandosi sotto al mio treno. Mancavano meno di trenta chilometri, un soffio a 250 km orari, ma adesso? Con il musone del treno danneggiato, la polizia, le ambulanze e tutto il resto? Il tempo passava e l’ansia saliva “non arriverò mai in tempo, potrei prendere un taxi, ma come, dove? E poi non ci faranno mica scendere”. I pensieri più funesti mi si accavallavano in testa “mi condanneranno, in contumacia, accidenti a me e alla mia pretesa di difendermi da solo. Che kzz di arrogante sono, ha ragione Marco quando lo dice …” Stavo già per farmi venire un coccolone, il cuore a mille, quando il treno prese lentamente a muoversi, mentre l’altoparlante annunciava che eravamo in avaria, che la velocità massima consentita sarebbe stata di pochi  km orari, che avremmo dovuto dare la precedenza ad altri treni e che, ovviamente, avremmo avuto diritto ad un rimborso. “Accidenti al rimborso, ma che me frega del rimborso, che me ne faccio…” Finalmente a Milano,  fremevo come un vitello portato al macello, corsi fuori, verso i taxi, saltando tutte le file e urlando “Taxi, taxi…scusate, ho un’udienza in Tribunale… devo arrivarci, sono in straritardo“  “Ma l’è la manera? Razza di bauscia…”, strillò una sciura, meneghina doc, dandomi una borsettata sulla schiena, “Vada, vada,” disse invece incoraggiandomi un signore anziano, assai più comprensivo. “Al tribunale, presto, la prego, faccia presto”. Scesi dal taxi come un ossesso, senza aspettare il resto, e mi precipitai dentro il Tribunale, con la morte nel cuore, perdendomi tra infiniti corridoi e sale dibattimentali, scansando uscieri carichi di faldoni, avvocati e tanti poveri cristi, preoccupati come lo ero io. E finalmente arrivai, orribilmente sudato, rosso in viso, il fiato corto… “ Sono Enrico Blasi, il dibattimento alle 11,30… scusate il ritardo, ma il treno… un suicida…sui binari, appena dopo Lodi… Insomma, in ritardo ma eccomi”. Il giudice mi guardò di sbieco, sogghignò sornione sotto gli occhiali, chissà a quante recite simili aveva assistito in vita sua, poi mi guardò meglio, ebbe pietà del mio stato, accettò la mia versione, si, insomma  diede per buona la mia giustificazione per il ritardo, e con un certo sussiego disse “In fondo il dibattimento non è stato ancora chiuso, sentiamo cosa ha da dire questo signore a sua difesa. Ma il suo avvocato, dov’è, non è venuto, anche lui un incidente, un’epidemia di suicidi?” “ Non ho un avvocato, vostro onore, non ne ho bisogno, ho con me le prove che quanto pubblicato è l’esatto pensiero, la volontà del nostro cliente, se c’è un colpevole in questa faccenda è solo il titolare della Nice… “ Improvvisamente  ero tornato sicuro di me, avevo recuperato, ripreso fiato. Tirai fuori dalla borsa la pubblicazione, una prestigiosa rivista di settore, in cui il titolare in questione affermava orgogliosamente al giornalista che lo stava intervistando che il suo, si il suo, era Il primo e unico orologio in sughero.  E la data di pubblicazione della rivista precedeva di oltre quindici mesi l’uscita della nostra Campagna. Assolto, evidentemente, perché carta canta. Uscendo dal Tribunale, finalmente rilassato, cominciai ad avvertire un tremendo dolore alla schiena, proprio dove mi aveva colpito la borsetttata della sciura. Ma cosa ci aveva messo dentro, un ferro da stiro?

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