Jurassic ‘70 a Valle Giulia

© Paolo Buggiani

Rossana e Rodolfo Buggiani, architetto lui e art director lei, mi erano diventati familiari ancora prima di conoscerli, me li citava sempre, almeno due o tre volte al giorno un amico comune, Paolo Vasta. Del fratello dell’architetto, di Paolo Buggiani, invece, non sapevo nulla, l’avevo solo sentito nominare, a volte, tra un bicchiere di whisky e una discussione politica, quando nel relax della loro casa si trovava tempo anche per l’arte. Sì, erano anni di impegno politico, ma tra il lavoro, un’occupazione e una manifestazione, anche di piacevoli discorsi e gozzoviglie. Una notte, tornando verso casa, vedo apparire sui muraglioni di Valle Giulia un paio di mostruosi rettili metallici luccicanti che si affacciano da certi pertugi tra i tufi. Nei giorni successivi si sono moltiplicati, sono diventati decine e decine. E hanno iniziato a colonizzare anche gli alberi. Strani draghi metallici, immobili e inquietanti, che ogni notte si replicano. Decido di arrampicarmi per catturarne uno, ovviamente non ci riesco, il muraglione è troppo liscio e io non sono Manolo, il freeclimber. Riprovo giorni dopo, più attrezzato, sto per raggiungerne uno quando una volante dei Vigili Urbani mi intercetta, mi intima di scendere immediatamente e mi commina una bella multa. Quella sera a cena dal mio amico Vasta, schiumando di rabbia, racconto tutto a Rossana, “Ma sono opere di Paolo”, mi dice subito lei…” “Come, come…opere? Vuoi dire che è una sua installazione? Ma come ha fatto ad arrivare fin lassù?” “Si vede che non lo conosci, Paolo è capace di tutto, di arrampicarsi sull’impalcatura di un palazzo e conquistare seduta stante una signora mai vista prima intenta a cucinare, come pure di arrampicarsi su per una corda appesa tra i grattacieli di NY sputando fiamme, o di inseguire pattinando, coperto di fiamme vere, una ragazza, anche lei sui pattini, sfrecciando tra le auto nel traffico delle vie di NY…”  “Ma, va in giro fiammeggiante tra le auto e la Polizia, non lo arresta?” la interrompo io “La Polizia? Sì, certo è capitato, lo hanno fermato, stavano per arrestarlo ma lui, in ginocchio come il peggior guitto, ha travolto gli agenti con un fiume di parole, riuscendo a impietosirli, a farseli amici, ottenendone così il perdono. Paolo è un mito, te ne accorgerai conoscendolo”. Già, come avevo potuto ignorarlo, Buggiani era già noto, attivo a creare e inseguire mitologie. Sì, avrei proprio dovuto capirlo che i rettili metallici erano opera sua. Dalle descrizioni della coppia poteva sembrare un pazzo incosciente, e invece si trattava di un vero artista, del tutto indifferente al “mercato dell’arte”, e già destinato a diventare oggetto e soggetto di mille racconti. Settimane dopo, finalmente, con la complicità di un paio di conoscenti, riuscii a incontrarlo e l’amicizia partì immediatamente. Paolo si rivelò energia pura allo stato selvaggio, un uomo capace di fare e pensare mille cose nello stesso momento, di essere a Roma, anzi a Isola Farnese, e misteriosamente ovunque nello stesso lasso di tempo, a Milano come a New York, come pure a incendiare ponti in Danimarca. Era ovunque e in ogni posto tracciava un segno preciso, un’impronta del suo passaggio. Un artista eclettico e curioso, capace di creare quei rettili meccanici affioranti dalle pareti di Valle Giulia che mi avevano colpito, ma anche di vedere e riconoscere, dove altri semplicemente passavano indifferenti, forme d’arte spontanee che in quegli anni apparivano sui muri della metropolitana di New York, disegni degni di attenzione, opera di un artista sconosciuto che si limitava a riempire gli spazi liberi di certi fogli, totalmente neri, incollati sopra le pubblicità ormai scadute. Strati e strati di opere d’arte che Paolo, con l’aiuto di un raschietto, è riuscito a recuperare, bruciando sul tempo spazzini e affissionisti che li avrebbero strappati e gettati come immondizia. Sì, Buggiani aveva scoperto Keith Haring, e l’aveva fatto prima di chiunque altro. Un vulcano perennemente attivo, un fiume in piena di parole, idee, concetti e azioni, con in più una dialettica avvolgente, coinvolgente. Difficile stargli dietro, impossibile non farsi sommergere e conquistare. Riusciva a parlare con competenza e arguzia anche della fotografia, sostenendo l’assoluta indipendenza del dito indice che a suo dire avrebbe premuto automaticamente il pulsante di scatto al momento opportuno, non un attimo prima e non un attimo dopo. Una teoria che avevo già sentito da un famoso fotografo di moda di quegli anni. Sì, è vero, è il dito che scatta la foto e lo fa giusto un attimo prima che tu ne abbia preso coscienza e quando tu decidi di scattare, lui lo ha già fatto. E sempre al momento esatto, l’ho verificato personalmente. In quegli anni, iperattivo come sempre, era alle prese con la sperimentazione di nuovi linguaggi, non solo visivi, fondendoli e sovrapponendoli, per poi ricavarne una sintesi. L’esplorazione del corpo in relazione allo spazio, Captured Space, azioni realizzate all’interno di una esile struttura cubica inserita nel paesaggio, documentate dalla macchina fotografica che ne cattura l’immagine non senza un ulteriore intervento dell’artista. Intuii subito che la tecnica che usava, con qualche variazione e piccoli adattamenti, mi sarebbe stata di grande utilità nel mio lavoro di fotografo, per ottenere ritratti e paesaggi particolarmente onirici e personali. Mai stare chiusi nel proprio bozzolo, uscendo si impara sempre qualcosa. Andai a trovarlo a Milano, era l’inaugurazione di una sua mostra, una enorme tela di dieci metri e più esposta semi arrotolata in una importante galleria. Ricordo giornate faticosissime, iniziate con l’allestimento il giorno precedente e ricominciate all’alba, poi l’inaugurazione, gli obblighi sociali dell’artista, la serata che ne segui, l’alcol… Io ero ospite a casa sua, in realtà in quello che era il suo studio a Milano e lui, dopo giornate così intense cosa fa? A notte fonda si mette a inseguire una sua idea, forse un lavoro su commissione, un’intuizione scaturita chissà come nella sua testa, ed eccolo disegnare forsennatamente una piscina, l’intera notte fare e disfare, disegnare e cancellare, avanti e indietro e poi di nuovo un altro foglio, e un altro…da capo. Un invasato, novello Efesto, perennemente alimentato da quelle fiamme che lo hanno sempre accompagnato nella sua ricerca artistica, lui stesso dragorettile meccanico riaffiorato direttamente dal jurassico per lanciare l’arte verso il futuro.

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