Millenovantacinque giorni di sughero. Case history semidrammatica

La prima multisoggetto Nice.


Era la seconda metà degli anni ’90, un giorno arriva in studio questo ragazzone con un orologetto in mano “vorrei fare delle foto a questo orologio, e magari anche un depliantino…” Osservai bene l’oggetto, era davvero grazioso, avrebbe meritato ben più di un pieghevole. Come infatti accadde. Il ragazzo che l’aveva portato, Andrea si chiamava, aveva gli occhi svegli, furbi, più o meno doveva avere tra i 25 e i 27 anni, insomma non arrivava ai fatidici trenta. Fino a pochi mesi prima vendeva i fiori ai semafori, o almeno così vantava, poi si era inventato una minuscola azienda di gadget promozionali e gli avevano proposto, come gadget vendibile, questo orologetto svizzero, si chiamava “Leccia”, che non aveva trovato riscontro nel mercato, non piaceva. Per forza, il quadrante era davvero bruttino. Andrea ebbe un’intuizione, “e se facessi disegnare un quadrante più simpatico?” Con Antonella, la designer che aveva coinvolto, ne avrebbe avuti parecchi di quadranti simpatici. Stava nascendo la Nice Swatches. Era arrivato fino a Somaini dove era il nostro studio, mio e di Marco, in motorino, con la sua ragazza e poi socia, e poi moglie, per avere una foto e se ne andarono con in testa una proposta: far diventare la Nice un’alternativa alla Swatch. Ci riuscimmo, Andrea aveva fiuto, era megalomane, sveglio e affamato di riscatto, aveva quel certo intuito, un istinto innato, che gli permetteva di riuscire a capire i processi mentali dell’interlocutore e, a quel punto, vendergli qualsiasi cosa. E soprattutto non aveva niente da perdere, forse il motorino, se gli fosse andata male. Mi fu facile, quindi, convincerlo a organizzare una campagna pubblicitaria degna di questo nome, pur senza avere una solidità economica e nessuna sicurezza di poter riuscire a pagare le fatture a Publitalia. Già, perchè avevamo deciso di puntare sul target donne, giovani e indipendenti economicamente. Esattamente il lettore tipo di Donna Moderna. La nostra squadra, Emanuela, Ela per gli amici, Alberto, Marco ed io, cui si aggiunse Daniela per gli spot, studiò il format e il trattamento più adatto al prodotto. Uscì la campagna, fu un successo incredibile. Il telefono della Nice suonava in continuazione: ordini, informazioni, altri ordini. Antonella, la designer in forza alla Nice, disegnava collezioni su collezioni. Che andavano letteralmente a ruba. Alzammo il tiro, pagine, spot, investimenti, sponsorizzazioni. Il successo sembrava inarrestabile, ma proprio allora cominciò un processo che avremmo dovuto prevedere: Andrea, che aveva messo su un’impresa dal nulla in un seminterrato nei dintorni di Piazza Cavour, con un’equipe di giovanissimi che giravano in bici o al massimo in motorino, divenne preda e succube della sua megalomania. In tempi brevissimi tra l‘altro. Trasferì l’azienda in una sede prestigiosa, a via della Camilluccia, riorganizzò la forza vendita, tradendo il suo fedelissimo coetaneo ormai defenestrato, e la affidò a Fausto, un abile, scaltro venditore, già ben inserito nel mercato. Che fece un ottimo lavoro, beninteso, organizzò efficacemente la forza vendita e avviò la Nice verso i dieci miliardi di fatturato. Ed eravamo partiti da un fatturato di soli 30 milioni di lire. Quell’anno la campagna si arricchì parecchio, sponsorizzammo una storia di Manara, pagine e pagine sui periodici femminili, spot in tv e presenza su “Non solo moda”. I telefoni alla Nice non smettevano mai di squillare, le vendite non vi dico. Il culmine lo raggiungemmo nelle fiere, le più prestigiose al mondo, Baselworld in Svizzera, e Vicenza Oro in Italia. In una occasione creammo un giardino, con albero di sughero annesso, in un’altra lo stand era un lago di 300 mq, con un isoletta al centro, un ponte per arrivarci, e lì un videowall di 12 monitor dove passava a loop solo la comunicazione, l’immancabile albero di sughero, un paio di panchine per sedersi. Nessun orologio da mostrare, nessun prodotto. Le fiere furono tutte un successone, gli ordini andarono alle stelle. Anche il Corte Ingles, il più famoso mall di Spagna inserì le collezioni Nice nelle sue vetrine, e arrivammo persino negli States, dove il locale distributore, inopinatamente, concesse una sponsorizzazione da 10.000 $ a una sfilata di sportswear. Soldi buttati? Così poteva sembrare, ma così non fu. Riuscimmo a trasformarla in un evento, Antonella, sempre la designer degli orologi Nice, creò un abito nude look, fatto di soli orologi, che fu fatto sfilare, prima dell’abbigliamento sportswear, indossato da una giovane, ovviamente bella, modella newyorchese. Filmammo tutta la sfilata, poi organizzammo una decina di yellow cab, i famosi taxi di NY, allestendoli con la nostra pubblicità, li riprendemmo mentre attraversavano la città, Manhattan, il ponte di Brooklyn, insomma ovunque. Sembrava che tutta NY fosse impazzita per la Nice, e poi i ragazzi di hockey a Coney Island, la maratona, la festa alla Galleria d’Arte, le interviste e le testimonianze. Tutto venne montato e divenne sette minuti di Non Solo Moda, e fu l’apoteosi degli orologi in sughero. Purtroppo il successo, la crescita così rapida del fatturato, la successiva inevitabile adulazione, misero l’artefice di tutto, Andrea appunto, in una condizione psicologica pericolosa. Si sentiva invincibile. Arrivammo ai ferri corti con le concessionarie Mediaset e Publitalia, a causa di una faccenda di pochissimo conto, la Nice sospese i pagamenti, tenne il punto per otto lunghi mesi, e arrivò a snobbare l’importante interlocutore arrivato apposta per risolvere bonariamente la questione, facendogli fare una lunga anticamera per poi non riceverlo. “Dica al suo cliente che è morto”, mi sibilò salutandomi l’ormai furioso plenipotenziario. Nel giro di pochi mesi l’avventura della Nice, durata solo tre anni, era finita. Per sempre.

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