
Se la rideva stamattina Carlo, mentre noi con le lacrime agli occhi lo salutavamo straziati. Ci aveva fregati tutti, se ne era andato così, rapidamente e senza preavviso. D’altronde era nel suo carattere irruento prendere improvvise decisioni, cambiare tutto improvvisamente o reagire violentemente d’istinto, a qualsiasi banale pretesto. Ci eravamo conosciuti quasi per caso, più o meno a metà degli anni ‘60, eravamo diversi, diversissimi, ma con parecchi punti in comune che ci facevano apprezzare reciprocamente. Provavamo un particolare gusto ad imbucarci alle feste a cui non eravamo stati invitati, per sfida. Come quella volta a Piazzale delle Muse. Non conoscevamo nessuno, e nessuno ci conosceva. I proprietari di casa erano venezuelani, forse amici di altri venezuelani che frequentavano la nostra piazza e così, forse, avevamo saputo di quella festa. Entrammo salutando educatamente chi ci aveva aperto, come è d’obbligo, mentre tutti i maschietti presenti ci squadravano torvi. Era già evidente dalle differenze dell’abbigliamento, noi con i jeans, le Clarck di ordinanza, l’Alan Paine a collo alto e loro, invece, imbarazzanti collettoni con la cravatta, pantaloni con la riga e Saxon con le nappine. Non poteva che finire male, anche perché alle ragazze presenti, invece, piacevamo, e infatti un paio di loro subito ci vennero a chiedere le solite cose, come eravamo capitati lì, e… raccontammo le solite panzane…un vostro amico venezuelano ci ha dato appuntamento proprio qui… arriverà tra poco. Ma l’ostilità dei maschietti, le occhiatacce che ci rivolgevano, le scortesie, mi avevano già scatenato una rabbia sorda a cui stavo per porre rimedio con il solito rituale di “fine festa”. A quel tempo ero parecchio incazzato col mondo, bastava un nonnulla per scatenarmi in vere cattiverie, non del tutto immotivate ma di certo assai esagerate. Ma mentre ero occupato a mischiare nei bagni creme depilatorie e shampoo, a versare nella vasca tappata profumi e saponi, per poi infilzare i rebbi di una forchetta in una presa elettrica e far saltare tutto, sentii che qualcosa stava accadendo tra Mazza e un paio di robusti pariolini che lo stavano provocando. E Carlo non era certo il tipo da lasciar correre. Lasciai perdere la forchetta, chiusi le porte, mi misi in tasca le due chiavi e andai da Carlo ”Andiamocene dai, presto, lasciali stare sono due str…” non riuscii a finire la frase, uno dei due con cui Mazza aveva iniziato a discutere, gli diede uno spintone per spingerlo verso l’ingresso, a cui Carlo rispose con un diretto al volto, spaccandogli il naso. Dovevamo andarcene subito, uscire da quella casa e scappare prima che si accorgessero di cosa avevo combinato nei bagni, ma lui si era come ancorato alla porta, il braccio sinistro e la gamba incollate allo stipide e il destro a picchiare duro tutti quelli che arrivavano per cacciarlo via. Mentre io ero già sul pianerottolo, fuori dalla rissa: “Carlo, dai andiamocene”… mollò la presa, lanciò un ultimo insulto e quelli chiusero la porta. Carlo era così, pochi minuti dopo già rideva “ hai visto che destro gli ho tirato?” Un attimo dopo era calmo, aveva già rimosso tutto. Una volta me lo vidi arrivare a casa di mamma, era con Olivier, “che ci presti la tenda? Stiamo andando al Circeo…te la riportiamo lunedì”. Durò solo pochi istanti la mia titubanza: “ eh? no, vengo anch’io”. Lasciai un laconico biglietto a mamma, “vado con Carlo al mare, torno sicuramente lunedì” Montammo la tenda nella pinetina di Torre Olevola, era marzo, e non c’era nessuno in giro, solo noi, il vento e il mare . Quella notte andammo a pescare le spigole, non avevo una muta, solo un maglione pesante, maschera, pinne, fucile e torcia subacquea. L’acqua era gelata, ma tenendo le ascelle aderenti al corpo riuscii a resistere giusto il tempo di infilzare due belle spigole, che finirono sui carboni ardenti di una griglia subito dopo, e poi, senza neppure dormire un minuto, andammo a vedere l’alba dall’alto del Monte Circeo. C’era un vento da nord, freddo e cattivo, ma anche il profumo della macchia, e lo spettacolo delle isole che sembravano galleggiare su un mare appena increspato, un prato verde/blu modellato dal vento teso. Ponza, il futuro “regno” di Mazza, grazie alla tramontana ci sembrava quasi a portata di mano, questione di poche bracciate. Quella notte in pineta, stesi sui sacchi a pelo e rimbambiti di sonno, non ancora paghi di quella inconsueta libertà cercammo di tirarla a lungo, di godercela fino in fondo, Olivier prese la chitarra e si mise a suonare. Aveva una voce calda e suadente e attaccò presto il suo cavallo di battaglia, I Started a Joke dei Bee Gees. Carlo sorrise soddisfatto, quel pezzo gli ricordava una ragazza, un amore recente e impose subito di ripetere all’infinito il pezzo. Ogni volta che Olivier stava per finire Carlo lo obbligava a ricominciare, ma ad un certo punto Oliver si stancò, e prima di ripetere per l’ennesima volta lo stesso pezzo, prese a chiedergli ripetutamente e a voce bassa “Mazza dormi? Mazza dormi?”. Non mi ricordo quante volte, stavo già sonnecchiando quando Carlo, come una furia, si alzò di botto urlando “come…Mazza dormi, Mazza dormi…ecchecazzo, mi stavo addormentando, vaffanculo…” Come invasato uscì dalla tenda, tolse i picchetti facendoci crollare addosso il telo, e iniziò a prenderci a calci, e poi a pisciare sulla tenda che per fortuna era impermeabile. Finì così la brevissima vacanzetta, tra urla e calci. Ma passato il momento della sfuriata e ridendo come scemi caricammo tutto sulla 500 e ripartimmo per Roma, ma la stanchezza era davvero troppa, fatti pochi km accostammo in uno spiazzo sulla destra e ci addormentammo di botto. Ma ci eravamo fermati proprio in mezzo all’incrocio tra l’Appia e la Fettuccia di Terracina, non in uno spiazzo, e il TIR, a pochi centimetri da noi, ci stava dando la sveglia con tutto il volume delle sue trombe. Salvandoci, sicuramente, anche la vita.

