Gatte nere e filuferru

ph Henrique Feiten – Pexels

Sbarcare da un traghetto alle sei del mattino dopo la notte passata sul ponte di una nave, è tra le cose peggiori che possano capitare ad un essere umano. Ma noi eravamo arrivati in Sardegna, a Olbia, eravamo giovani e non potevamo che essere felici. Niente cappuccini ai bar del porto però, avevamo una gran fretta di arrivare alla nostra meta, una spiaggetta selvaggia e solitaria immersa nella macchia mediterranea e lontana chilometri dalla Statale 125 e dalla folla. Per arrivarci solo una stradina bianca, in realtà poco più di un sentiero da capre, sconnesso e a tratti a strapiombo sul mare, molto, ma molto pericoloso. Nella cesta legata al portabagagli la nostra gattina, Nera, che dorme serena. Come abbia fatto quella gatta a restare così tranquilla non l’ho mai capito, nessun gatto, secondo me, può sopportare un viaggio simile senza lamentarsi, e senza tentare pericolose fughe, dato che solo un foulard la teneva al riparo dal sole, dal vento e dalla fuga. Lei invece nulla, immobile, neppure un miagolio. Correvamo sulla statale 125, correvamo per modo di dire, la nostra moto non era un bolide, ma una vecchia bicilindrica Gilera 300, che avevo ricevuto da pochi giorni, quasi regalata, trasformata in uno strano mezzo chopper da un amico militare USA. Era strana, bruttina ma contemporaneamente affidabile, e questo mi piaceva, ma essendo già pesante di suo e ulteriormente appesantita dai nostri enormi zaini non si può proprio dire che fosse velocissima. Al minuscolo serbatoio del quasi chopper serviva un rifornimento e a noi un po’ di riposo, magari anche un caffè.  Decidiamo quindi di infilarci in un’area di servizio con annesso bar che avevamo   notato sulla carreggiata opposta. Ma mentre con il braccio sinistro sto segnalando l’intenzione di girare, portandomi al centro della strada, una Renault 4 beige ci raggiunge, e quasi ci fa cadere, costringendomi a manovrare velocemente. E quasi in automatico il mio braccio, già teso nel gesto, manda al diavolo la Renault, o meglio, il suo cazzo di autista. Entrando nello spiazzo della stazione, a quell’ora deserta, mi accorgo che la Renault, già lontana, fa una spericolata conversione a U alzando una nuvola di polvere e fumo di copertoni. “Ecco, ci ha ripensato e adesso mi tocca pure discutere con questo stronzo”, penso mentre mi preparo al litigio, e faccio appena in tempo a mettere la moto sul cavalletto accanto alle pompe che la Renault entra sgasando rabbiosamente nell’area inchiodando proprio accanto a noi. E ne scende un gigante, un uomo enorme, alto e robusto, rosso in viso e con le vene del collo gonfie di rabbia. E viene subito all’attacco, mentre io, prudentemente, metto tra noi due, a mò di barriera, la pesantissima, stracarica moto. “Tu mi hai mandato a fanculo”. “Chi, io?“ gli rispondo vigliaccamente “ma no, ha capito male”. Sono spaventato, il tizio è davvero grosso, le braccia con cui cerca di afferrarmi sono spaventosamente muscolose, terrificanti, ma la Gilera è un’ottima barricata, gli impedisce di afferrarmi come vorrebbe. Sento Daniela, implorante, gridargli spaventata “Ma che fa, lo vuole ammazzare… ma non lo vede che lei è il doppio di lui… e per cosa poi…” La risposta arriva secca, come una fucilata “Mi ha mandato a… vaffanculo…” Che uno si possa infuriare così, con tanta rabbia, per un gesto che a Roma non è neppure ritenuto offensivo, non posso davvero capirlo, eppure eccolo qui, vivo e furente, il gigante offeso. Non posso distrarmi, e mentre continuo ad evitare il contatto spostandomi dal lato opposto della moto cerco di farlo ragionare “ma come l’avrei mandata a fanculo?”  Mi accorgo di aver sbagliato, la domanda non fa che farlo incazzare di più “Con il braccio… nel continente voi fate così col braccio e vuol dire…” Si imbestialisce al pensiero, le vene sul viso sono sempre più evidenti, sembrano voler scoppiare. Daniela se ne accorge e sempre più spaventata riprende a chiedergli di lasciar stare, che da noi a Roma quel gesto è cosa normale. Si fà continuamente, quasi un riflesso condizionato. Lui cerca di prendermi, girando intorno alla moto, ma io rapidamente lo evito spostandomi dall’altro lato. Quand’ecco che, imbufalito, fa una cosa davvero terrificante: prende con le sue enormi mani la moto, il manubrio con la sinistra e il portapacchi con la destra, la alza e la sposta di lato. Ero fregato, aveva eliminato la mia unica difesa: la moto fatta barricata. E adesso ero allo scoperto, preda inerme della sua collera. Ma per lui era stato uno sforzo immane, un gesto agghiacciante, che però ha portato ad un risultato insperato: nel compierlo ha usato tutta la sua energia, e la sua rabbia si è di colpo esaurita. Fissandomi negli occhi, mentre io ormai sto aspettando la fine, mi dice con voce quasi normale “E lo sai allora cosa ti dico io?” Ovviamente non lo so, e gli rispondo  timidamente “Cosa?” E lui “Affanculo vacci tu”. 

Resto incredulo, non ci posso credere, “Ma certo sì, affanculo io, sì, sì”. Mentre osservo il pallore  scomparire dal viso di Daniela mi arriva forte e chiara la voce di lui “E adesso che tutto è a posto andiamo al bar a bere, pago io.”  Tre filuferro e tre birre alle 6,30 del mattino… i sardi, che gente. 

E la gatta? Ha continuato tranquillamente a ronfare nella cesta al riparo del foulard.

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