
Eravamo tutti giovani, io, Pettini e Daniela la mia compagna di mezza vita. Avevo deciso quell’estate di affrontare per la prima volta l’affidamento dei miei fratelli per una vacanza, un mesetto al mare, in un posto insolito, ancora semisconosciuto in quell’anno 1974. Non Ponza, che era già l’affollata meta agognata dei romani, ma Ventotene, l’isola dei confini e delle lenticchie. Mi era apparsa subito più attraente, più selvatica e lontana dalle rotte dei vacanzieri di quei tempi. Non mi sbagliavo, Ventotene era rimasta immobile, ferma, cristallizzata. Il carcere borbonico sull’isolotto di Santo Stefano, distante appena un miglio, era stato definitivamente chiuso da poco, dal 1965, e le costruzioni che avevano ospitato i confinati erano ancora lì, integre, una presenza ingombrante, imponente e inquietante. Ma noi sapevamo che lì, tra quelle mura e gli spini, era passata la Storia, che il carcere che aveva ospitato e ucciso l’anarchico Bresci, quello dell’attentato al Re, quarant’anni dopo aveva chiuso tra le sue mura anche i tanti dissidenti del fascismo, Pertini, Terracini e tanti altri, e che Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, anche loro confinati sull’isola, sempre lì avevano redatto il “Manifesto di Ventotene”, il testo fondante dell’Unione Europea. Tutto ciò era, per noi giovani ribelli e idealisti, un forte elemento di fascinazione, ma ci aveva soprattutto attirato la mancanza di un porto turistico la cui esistenza avrebbe vomitato sull’isola frotte di vacanzieri in cerca di comode spiagge, strutture ricettive, ristorantini e del classico struscio serale, esattamente come accadeva in altre isole. Ad essere sinceri un porto c’era, l’antico “porto romano”, scavato millenni prima nella roccia tufacea, un porto di pesca ancora utilizzato dai pescatori per i loro gozzi e fortunatamente del tutto inadatto agli yachts. Un buen retiro, un esilio volontario per pochi privilegiati non necessariamente ricchi, e per noi, con quella sua natura aspra e insieme esuberante, la sua storia, i profumi della macchia mediterranea e il mare… un mare indaco, incontaminato, era l’Eden. Tutto era fonte di emozioni indescrivibili. Sì, venirci in vacanza era stata un’ottima decisione. Ci accampammo con le tende proprio dove sorgeva la villa di Giulia, la figlia lussuriosa e promiscua dell’Imperatore romano Augusto, lì esiliata perché colpevole di aver congiurato contro il padre. Giulia Maggiore, il primo confinato della storia dell’isola. Tre tende minuscole, giusto per dormire, tre canadesi, in una i miei due fratelli, nell’altra io e Daniela e nella terza, solo soletto, il mio caro amico Pettini. Il luogo, chi ci è stato lo sa, è arido, roccia tufacea, senza un albero, totalmente privo di ombra. Ma chi se ne interessa dell’ombra a venti anni? C’era il mare, e tanto bastava, il mare ci aveva portato lì ed era quanto più desideravamo, pieno di vita, di pesci e di polpi, con i fondali carichi di ostriche, che nessuno pescava. Ostriche mediterranee, di gran lunga più saporite e profumate di quelle francesi e per di più facilissime da staccare da quelle morbide rocce di tufo. Ed erano lì, a portata di mano, in pochi metri d’acqua. Certo, non potevamo accendere fuochi, troppo pericoloso e quindi neppure grigliare il pesce. Sull’isola c’era un solo albergo e un solo ristorante, annesso all’hotel, ma troppo costoso e borghese per noi rivoluzionari selvaggi e quindi a nutrirci ci pensò la tabaccaia dell’isola, una matrona taciturna, enorme e gentile, da cui ogni giorno eravamo a cena, un unico vero pasto al giorno, ma nutriente, gustoso e abbondante come si conviene, e soprattutto alla portata delle nostre tasche. Il menù? Zuppe! Di fave, di lenticchie, di polpi e di pesce, (che ovviamente pescavamo noi), qualche grigliata e poi le pesche, deliziose pesche bianche del suo giardino immerse in tazze di vino bianco dell’isola, un vino denso, pesante, buonissimo. Ogni sera, dopo cena, usciti da casa sua ci incamminavamo barcollando fino alle nostre tende, ridendo, cantando, felici e ubriachi, per poi, crollare addormentati, appena stesi su quei letti di tufo, sassi e sassetti. Ma poi, come ogni mattina, alle sei arrivava il sole e nelle tende infuocate il caldo diventava asfissiante. Marco era il primo a svegliarsi, la sua tenda era più esposta e già con il primo sole diventava rapidamente un forno, quindi usciva, si sdraiava fuori, pancia in giù sul materassino e riprendeva a dormire. In breve tempo si ustionò la schiena, e dormire per lui divenne impossibile, gli riusciva solo dopo una sempre più abbondante dose di vino, con pesche o senza, e ogni mattino si trovava a ripetere lo stesso schema del giorno precedente: sole/caldo/materassino/ustione. Un circuito infernale, che lo costrinse presto a cercare riparo diurno nell’ombra della stanza sotterranea dove Giulia Maggiore, la figlia esiliata di Ottaviano Augusto, prendeva il bagno e si concedeva, probabilmente, qualche svago erotico lontana da occhi indiscreti. Una stanzetta piccola, scavata nel tufo a livello mare, una piscinetta dove il mare entrava con la risacca e il ricambio d’acqua era continuo. Fresca, freschissima, e curativa, la vasca privata di Giulia, e contribuì a guarire le ustioni di Marco, mentre noi, io e i miei fratelli, andavamo ogni pomeriggio a spiare le mosse di Benito, il pescatore, che con il suo gozzo “Il Ricciola” usciva dal porto romano con le lenze già in acqua, per poi rientrare, appena dopo il tramonto, poco prima del buio, con almeno due o tre ricciole di grosse dimensioni. Il Re delle Ricciole, l’avevano soprannominato, ed era un titolo davvero meritato, un Re geloso dei suoi segreti e delle sue lenze, che non faceva mai vedere a nessuno. Ci prendeva pure in giro, “io con i pesci ci parlo, li chiamo e loro arrivano” ci diceva ironico, “voi non ci riuscirete mai, non ci sapete parlare”. Non siamo mai riusciti a capire dove davvero prendesse quelle prede “in mare” diceva “in mare, i pesci stanno in mare, non lo sapete?” Ma appena uscito dal porto e girata la punta scompariva alla nostra vista. Dove andasse a prenderli quei pesci non lo sapremo mai, è anziano il Ricciola, e i suoi segreti se li porterà nella tomba, e una volta arrivato lì, srotolerà le sue lenze e se ne andrà a pescare nell’infinito. Come ha sempre fatto.