
Non ricordo esattamente l’anno, ma io, di sicuro, ero lo schivo ragazzino che stava per frequentare la prima media. L’italiano non era ancora la mia lingua preferita, ma anche se il mio accento tradiva il recente arrivo dal sudamerica, la mia padronanza della lingua era eccellente. Parlavo addirittura un italiano troppo ricercato per uno della mia età e già questo semplice fatto mi poneva in difficoltà con gli altri ragazzini. Figuratevi come mi sono potuto sentire a mio agio quando una tournée che avrebbe portato i miei genitori in giro per l’Italia, portò invece me in un collegio dei Salesiani, a Genzano. Fu quasi come essere calato in una fossa dei serpenti, dove gli altri prigionieri, ragazzini come me, presero immediatamente a odiarmi: troppo educato nel comportamento, troppo forbito nei dialoghi, troppo schizzinoso a tavola. Ma anche se ero molto educato e rispettoso ero anche troppo ribelle per piacere ai Salesiani, che iniziarono ben presto a comminarmi, ad ogni occasione, punizioni esemplari. Nulla di corporale, s’intende, niente bacchettate o schiaffi, si accontentarono dapprima di castigarmi impedendomi i giochi in cortile con gli altri. La cosa, però, mi lasciava del tutto indifferente, anzi mi faceva addirittura piacere, ricambiavo infatti l’antipatia dei “colleghi” con altrettanto livore, isolandomi sempre in un angolo del cortile e non partecipando alle attività collettive dei vari branchi che si limitavano a qualche calcio al pallone, a dei tiri in un canestro sbilenco e a capannelli riservati a piccoli gruppi. I preti se ne accorsero subito e il mio autoisolamento fu interpretato come altezzoso, mentre in realtà ero solo a disagio, vessato dalle prese in giro, dagli sgambetti, dai dispetti stupidi degli altri. Una notte di fitta nebbia tentai pure la fuga, rischiando di precipitare camminando piano piano, spalle al muro, sullo stretto cornicione che circondava lo stabile proprio sotto le finestre del dormitorio. Un ragazzino insonne mi vide e subito fece la spia, mi ripresero che ero già sul ponte dell’Ariccia. La nebbia era davvero molto fitta, ma non abbastanza. Iniziai da allora ad evitare sempre più gli altri, isolandomi in un bosco limitrofo al campetto di calcio. Passavo il tempo raccogliendo castagne da terra e catturando piccoli ghiri che si annidavano tra i rami dei noccioli. Rari momenti di felicità in cui perdevo completamente la cognizione del tempo. Ma l’inevitabile e ripetuto ritardo alle lezioni del pomeriggio fu causa di altri castighi. Arrivarono a chiudermi in una cappelletta buia, pretendendo che io, in ginocchio, restassi immobile tenendo sulle braccia alcuni grossi, pesanti libroni. Posizione scomoda e libri pesanti, non potevo di certo sopportarlo, quindi non appena sentivo la grossa porta di legno chiudersi alle mie spalle appoggiavo i libri in terra sedendomi sui gradini dell’altare a rimuginare. Mi ritrovavano sempre così, addormentato in terra, con la testa sui libroni. Non era esattamente il tipo di punizione che potevo impunemente subire, e cambiarono presto strategia. Ogni domenica il grande campo di calcio del collegio ospitava una partita tra due squadre rivali, a cui partecipava un discreto numero di spettatori dei paesi vicini, e così, per farmi abbassare la cresta, mi vestirono da venditore di noccioline, con una tracolla a sostenere una cassetta colma di caramelle, patatine e bibite. Avrei dovuto, secondo loro, girare tra gli spalti e vendere la mercanzia, invece, seduto tra gli spettatori, distribuii gratis tutto quanto. Immaginate con che furia mi accolsero quando si accorsero che avevo regalato tutto. Disobbedire era diventato il mio mantra, farmi cacciare l’obiettivo da raggiungere. Un provvidenziale nido di calabroni, scoperto nel bosco, mi suggerì una perfida soluzione. Il refettorio era organizzato in tavoli da sei, in ogni tavolo un capetto aveva la responsabilità del comportamento degli altri, e del rispetto delle regole: nessun avanzo doveva restare nei piatti. E ogni volta che c’era la pasta al sugo io non riuscivo neppure a mandar giù un boccone, troppo acido il sugo, troppo cotta la pasta e troppo puzzolente il formaggio che la ricopriva. Quel giorno arrivando a tavola appoggiai davanti al mio piatto un grosso barattolo di talco Roberts. Chiesi al capetto di poter andare al wc, raccomandando a tutti di non aprire assolutamente il barattolo del talco, altrimenti… Avevo fatto solo pochi passi, e mentre un sorrisetto beffardo mi appariva sul viso, il trambusto alle mie spalle mi faceva capire che la mia raccomandazione non era stata seguita e i calabroni che avevo rinchiuso nel barattolo stavano compiendo la mia vendetta. Era andato tutto come nei miei piani. Il giorno successivo ero fuori, espulso.
troppoforte!! :)) se ti avessero mandato dai Gesuiti tutta la tua vita dopo sarebbe stata un’altra
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