Un cavallo di razza

Con Cristina era definitivamente finita da poche settimane, nel frigo di quella che un tempo era stata la mia cucina, solo dei crackers e un paio di bottiglie di Martini dry, semivuote. Erano state utili, mi avevano salvato la vita, il mio delizioso inimitabile Prozac alcolico per colazione, pranzo e cena. Una letale medicina che mi avrebbe in breve tempo divorato. Sotto casa la mia amata Mercedes abbandonata all’ombra del platano stava già trasformandosi in un orto d’inverno, larghe foglie marcescenti la ricoprivano, muschi ed erbacce la coloravano di un orribile verde e la bella carrozzeria che una volta era stata bordeax, e su cui tanto avevo investito… un ammasso rugginoso, ecco cosa sarebbe diventata. Pensavo solo al suo disfacimento e al freddo pungente di quei giorni di dicembre ‘73 mentre al telefono il mio amico Lorenzo ricominciava, petulante, a lamentarsi della sua ospite, una diciannovenne friulana, che la moglie scozzese non voleva più tra i piedi nella loro casa. La conoscevo bene Rhona, una donna energica e simpatica ma di una gelosia malata, morbosa, e persino, a tratti, feroce. “Sì sì, ti capisco ma tutta questa faccenda non mi riguarda, non mi puoi chiedere questo, lo sai, ho già i miei di problemi e non voglio condividerli con nessuno… figurati se posso caricarmi pure quelli de st’amica tua”.  “È una modella, una ragazza bellissima, botticelliana e tu sei un fotografo, un’occasione così…ma quando ti capiterà più?” Cercava di incuriosirmi, mi conosceva da poco, ma aveva subito capito quale potere potevano avere su di me certe belle ragazze, fiere e indipendenti, di quei primi ’70, giovani dall’incarnato diafano, occhi verdi, e carattere indomito. “Non se fa nulla” risposi secco, “donne nella mia vita…? Ma neppure come ospiti, te l’ho detto e lo ripeto: mai più. Se è così carina, arrogante e deliziosa come dici, troverà certo un cretino ben felice di ospitarla”. Gli chiusi il telefono in faccia. “Ho già dato, non mi faccio più fregare da nessuno, e nessuna donna mi potrà impedire di andare in Africa, con le mie due Leica, a raccontare la guerra civile e se morirò… ma sì, morire, chissenefrega, ho vissuto e, tanto o poco che sia, mi basta”. Avevo fatto male i conti, con me stesso, con i miei 25 anni e con il potere degli occhi di Lei. Erano passati solo pochi giorni dall’ultima telefonata quando lo incontrai al Village, a Piazza Jacini, ma Lorenzo non era lì da solo come il suo solito, aveva accanto una tipa palesemente nordica. Era sicuramente Lei, l’ospite che voleva appiopparmi era molto più che bella, era altera, intrigante. Botticelliana? Apparentemente, solo apparentemente. Incrociai il suo sguardo, Lei mi fissò e in quell’attimo percepii nei suoi occhi un lampo di sfida. Ero stato  cretino e troppo precipitoso a negarle l’ospitalità, ma come tornare indietro? “Ho un certo appetito che ne direste se…”  e sul viso di Lorenzo spuntò quel particolare sorrisetto di chi si sente di aver già vinto. Proposi una serata di cibo esotico nell’unico ristorante cinese decente di quella Roma del 1973. “Tranquilli, pago tutto io, posso permettermelo, mi hanno appena pagato”. Era vero, avevo appena depositato in banca una sommetta a sette zeri. Nascosi bene il mio disagio, non potevo sfacciatamente tornare sull’argomento ospitalità, e feci la mia parte di teatro, mostrandomi cordiale, ma sempre freddo e impassibile. Pochi giorni e tornai a invitarli a cena, dal Toscano a via del Boschetto e lì, finalmente, il mio amico, sottovoce per non farsi sentire da Lei, mi sibilò all’orecchio. “Rhona non mi dà tregua, ti prego…” Aspettavo questo momento e fingendo riluttanza, accettai di ospitarla. “Ok, può venire a stare da me, ma solo finché non trovate una soluzione, anzi, finché Lei non trova un’altra sistemazione. Siamo d’accordo, vero?” La fissai, cercando nei suoi occhi una qualche reazione, che non arrivò. In quel preciso momento rinunciai definitivamente all’idea di andare a morire in Africa. A casa, tre camere e cucina nel quartiere Monti, un lavandino di piatti sporchi, bottiglie vuote di superalcolici ovunque, anche nel bagno, e quell’incredibile disordine di cui solo certi uomini depressi sono capaci. Alle pareti tante foto, su cui, enorme, spiccava il bel ritratto di Juliette, una mia ex francese che avevo conosciuto in Corsica e che Ferreri mi aveva pregato di ritrarre. Per il resto era una casa da “figlio dei fiori” arredata in modo alternativo, senza mobili, divani o poltrone, tutto si concetrava su alcuni kilim e cuscinoni su cui rilasciarsi ascoltando musica. Un vecchio armadio e un unico letto matrimoniale completava l’arredamento della camera da letto. Ma non ne approfittai, condividere il letto non dà automaticamente diritti sul corpo delle ospiti.Quel mese arrivò la disdetta del contratto di affitto, era scaduto da tempo e ancora intestato a Cristina. Un casino annunciato a cui avrei dovuto trovare già da tempo una soluzione, ma me ne ero fregato altamente, preso come ero dai miei casini mentali. Adesso però ero costretto a scuotermi dall’inedia, ad agire, trovare una casa e cancellare le tracce del mio recente fallimento affettivo. Trovai in un annuncio quella casa a Monteverde vecchio, il Villino Malincontri, una vecchia costruzione fatiscente, un torrino con grandi terrazze e un enorme giardino pieno di alberi da frutto. Una reggia al confronto delle tre camere e cucina a Monti. Tornai ben presto a tirare tardi la notte, sempre in giro con la nuova amica, e i tanti che mi avevano ignorato quando ero depresso me li ritrovai tutti alle calcagna a chiedermi di Lei. Erano anni fantastici e generosi, il lavoro non mancava, c’era anzi da scegliere, e ripresi a fare cinema, tanto cinema, ma non proprio d’autore, anzi, b-movies boccacceschi e western spaghetti, in gran parte girati fuori Roma. Lei, invece, rivelò un incredibile talento e iniziò subito nel teatro, off naturalmente, e dopo un breve periodo di prove, partì in tournee. Il suo ritorno mi trovò stressato, capace di gesti orribili di cui ancora oggi non vado fiero, frasi al limite dell’insulto a cui seguivano violenti litigi, sfuriate brevi ma intense, valige e vestiti gettati dalla finestra. Dovevo calmarmi, riprendere il controllo della situazione e dei miei nervi, ed ecco che la custodia della casa di un amico partito per un breve viaggio, con cane, gatto, piante e giardino da curare, mi dà l’occasione per allontanarmi, riflettere e staccare, magari solo per un po’. Ma l’idea non le piaceva, era inquieta, avvertiva delle “presenze” da quando “penna bianca”, il barista di via Cavalcanti, le aveva raccontato con dovizia di agghiaccianti particolari che in quella casa un uomo era stato ucciso a coltellate, sbudellato da un magnaccia e Lei nel Villino Malincontri non voleva proprio restarci, almeno non da sola. E così, anche se controvoglia me la trascinai dietro. Quella sera preparai una cenetta a due, niente di romantico, cibo semplice, come piace a me. La notte, sotto le lenzuola, lei divenne improvvisamente un’altra, chiuse il libro che era solita leggere e appoggiò la schiena sul mio fianco, ondeggiando leggermente le anche. L’abbracciai e non fummo più solo conviventi. La mattina mi scoprii cambiato, le braccia, il collo e le spalle segnate da morsi, la schiena devastata da graffi profondi e sanguinanti. E incredibilmente non provai alcun dolore. Che fosse il mio carnefice o il mio anestetico Lei era evidentemente in quel momento l’unica cura miracolosa di cui potevo servirmi. E ne approfittai. Sedici anni durò la nostra storia, anni di simbiosi totale, anni straordinari in cui la mia quotidiana attività era fotografarla, migliaia e migliaia di foto, in ogni luogo e circostanza. Nuda o vestita era sempre Lei al centro delle mie immagini, dei miei pensieri, delle mie giornate. Un’ossessione al centro delle mie ossessioni, poi qualcosa tra noi due iniziò a incrinarsi, forse la nostra turbolenta convivenza,oppure l’eccesso di vita bohemienne, ma più probabilmente fu il carico di problemi, dolori e contraddizioni che Lei aveva introiettato dai suoi personaggi, tutte donne complicate in cui si immedesimava completamente,  portandosi dentro a lungo le loro identità, le loro sofferenze, le angosce. Si, era un’artista vera, un’attrice di grande talento e fragilità che non era mai riuscita a distinguere, separare, il personaggio dalla donna vera. Non recitava, viveva interamente i personaggi che interpretava. Un “cavallo di razza” l’aveva definita Antonioni, e di certo era così. E poi era generosa, fino all’impossibile, sempre pronta ad impegnarsi totalmente in qualcosa o per qualcuno, senza una convenienza, un ritorno, economico o meno, e senza secondi fini. Ma non poteva difendersi, non aveva un paracadute, nè stampelle chimiche o alcoliche, nulla su cui appoggiarsi per risollevarsi e ripartire. Cominciai anch’io a vacillare e diventare un fantasma, una presenza assente, un muro di gomma, fu un attimo e questo la portò ancor più a dubitare di me, di se stessa, di tutto. Starle accanto era un tormento, un vero inferno, e più io cercavo di fingermi sereno e più Lei si trasformava in una furia implacabile e intrattabile, che poi, a tratti, si ricomponeva e tornava l’affascinante donna, ammaliante e dolce, che avevo conosciuto. Ma era ogni volta un’illusione, un miraggio, solo una tregua di breve durata, da cui riemergeva sempre una mia personale erinni, ogni volta più dura e respingente. Chiedeva aiuto, sicuramente, ma che tipo di aiuto poteva dargli il muro di gomma che io ero nel frattempo diventato? Un tira e molla devastante e infinito, con i litigi che aumentavano, di numero e di intensità, e solo quando, all’apice delle tensioni e ormai allo stremo, mi accorsi della presenza di una salvifica Urì, riuscìi a scuotermi e a convincermi che era davvero finita, che ritrovare il passato era ormai impossibile e che dovevo salvare quanto restava della mia vita, anche a prezzo della sua. Gettai la spugna, mi arresi e vigliaccamente fuggii. Sono ancora in fuga, ma un “cavallo di razza” non si dimentica mai.

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