
“Baasiluzzo? Ma dov’è baasiluzzo? I never….” così reagì, la mamma americana di una mia fidanzatina al mio racconto sulla imminente vacanza a Basiluzzo. Ai tempi del liceo appena terminate le scuole, e assai prima dei quadri, sì, dei risultati, preparavo lo zaino, pochi viveri, l’indispensabile vestiario estivo, una piccolissima canadese i pochi soldi e via, in vacanza. I miei non erano particolarmente favorevoli, ma neppure contrari. Mi lasciavano fare, fa parte della crescita, dicevano. Mi mantenevo l’intera estate pescando, mangiando pesce e vendendo la parte del pescato più appetibile. Quell’anno decisi sulla carta che sarei andato per prima cosa a Basiluzzo. Un puntino sulla carta, un obiettivo difficile da realizzare. Ci provai. Ovviamente presi il traghetto da Napoli per le Eolie, una scorciatoia neppure troppo costosa e poi, una volta a Panarea mi posi il problema di come arrivarci, era vicinissimo, poche miglia… “ e picchì volete iri a basiluzzo” mi chiese un pescatore eoliano sardonico e schietto “nun ci sta nenti, nun ci campa nuddu, sulu rocce e mari”. “Un’ottima ragione per andarci” gli dissi immediatamente. “E allura aspettate dui jorna e vi ci portu”. Rideva in cuor suo il pescatore mentre mi lasciava su quella specie di scalo naturale… “’na simana dovete ristari, ‘na simana poi torno e ni nni amu”. Feci di sì con la testa e lo salutai con un gesto della mano. Ciao e grazie. Avevo riserve di acqua per almeno 10 giorni, qualche scatoletta di tonno, patate e poco altro. Avrei pescato, altro non mi serviva. Basiluzzo era un paradiso, non lo scoglio nudo che dicevano tutti. Era stata pure abitata, c’erano muretti a secco a testimoniarlo e anche, ben visibili, i ruderi di una villa patrizia, i pavimenti a mosaico, parzialmente coperti dalla vegetazione. Piante di rosmarino, capperi, palme nane, lentisco, cipollotti selvatici e addirittura limoni. Sì, profumatissimi limoni. Sia benedetta la meravigliosa macchia mediterranea. Non sarei morto di fame, forse di sete. Il caldo era insopportabile, e nel piccolo spiazzo dove avevo messo la tenda, neppure un ombra. Mezz’ora dopo l’alba, il caldo, la tenda rovente mi obbligavano a uscire. La mia prima giornata da eremita, da autoconfinato su Basiluzzo fu davvero eccitante, super. Mi buttai subito in mare. Le ore del mattino sono tra le migliori per la pesca e dovevo provvedere al cibo. Le scatolette di tonno? Solo in caso di emergenza. Su un fondale di sei, sette metri riuscii a trovare una cerniotta, piccola, solo un paio di chili, ma abbastanza per me, per pranzo e cena. Un grosso pezzo lo mangiai subito, sfilettato, marinato nel succo dei limoni appena colti, cosparso di rosmarino e cipollotti selvatici. Carpaccio di cernia, una vera delizia, mangiarla così, cruda, quasi viva, altro che sashimi. E poi faceva troppo caldo per accendere un fuoco, troppo caldo e troppo pericoloso, e se fosse partito un incendio? Con tutto quel secco… Le giornate erano lunghe, calde e noiose. Insuperabile, unico, il panorama, magnifico il silenzio, l’infrangersi delle onde sugli scogli. Ma non c’era molto altro da fare. Sì, pescare, ma c’era un sacco di pesce, addirittura troppo, le battute di pesca duravano davvero poco, giusto il tempo di prendere uno, al massimo due pesci, insomma solo quanto necessario e poi, per il resto della giornata ore e ore di snorkeling ad ammirare i fondali, i pesci. Ma poi? Cos’altro restava? Nascondersi dal caldo sotto i cespugli, altri bagni, altre immersioni, una ricerca, un’ispezione curiosa ai pezzi di bambole e altre cose, ai resti portati dal mare e incastrati tra gli scogli. Quando finalmente tornò il pescatore ero diventato nero come un tizzo, i capelli con le meches bionde, bruciato dal sole e dal sale. Dieci giorni rimasi su quello scoglio, dieci giorni a mangiare pesce crudo, in compagnia di lucertole e conigli selvatici di cui ben quattro a scrutare il mare, ad aspettarlo. E se non fosse più venuto? Se gli fosse capitato qualcosa? Ma no, è solo per il mare agitato che non torna, che non mi viene a prendere. “Siti statu beni? mi dispiace nun èssiri vinni apprima, ma nun era possibili, trùoppu mari” mi disse con tono sardonico. Fui davvero felice di essere sbarcato a Panarea, in mezzo ai veri villeggianti, ragazze in costume da mare e pareo, cappelloni di paglia, occhiali da sole. Profumo di creme abbronzanti e doposole, insomma, la civiltà. Apprezzabili visioni, ma solo dopo un bel cappuccino e cornetto, l’unico genere di conforto che mi era davvero mancato.
Ho sempre pensato che fossi u genio folle ma non fino a questo punto …
sei unico per me, irripetibile !
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sempri esagerato si, avaia.
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