
Sono sempre stato in ritardo, questione di stile personale e di scarso interesse alla puntualità. Ero in ritardo anche all’appuntamento con la sessualità, non che le ragazze non mi interessassero, ma avevo un sacco di altre priorità, altri obiettivi che perseguivo accanitamente, non concedendomi quelle che valutavo mere distrazioni, perdite di tempo, intralci. Insomma le ragazze, per me, erano un dettaglio assai trascurabile, salvo quelle poche maschiacce che apprezzavano andare per boschi a catturare falchi e donnole, a costruire ponti sospesi e a far casino in giro. Quel giorno però, stranamente, non mi opposi all’insistenza di due miei amici e mi feci trascinare, senza particolari motivi, ad una festa ai Parioli, quartiere del cosiddetto “generone romano” che non ho mai particolarmente apprezzato. Appena entrato in quella casa, però, il mio sguardo cadde subito su una ragazza alta, magra i lunghissimi capelli neri e lisci che le arrivavano alla vita e due magnifici occhi verdi che spiccavano su un viso particolarmente liscio e candido. Era impossibile non notarla, ebbi difficoltà a toglierle gli occhi di dosso, ovunque andassi il mio sguardo andava inevitabilmente su di lei, che pur non dando alcun segno non poteva non accorgersene. Mi rendevo perfettamente conto di stare precipitando in un gorgo, preda dell’incantesimo che mi suscitava, ma non volevo cedere, cercavo di resisterle. Poi la complicità di un paio di drink mi fece abbassare la guardia. La casa era grande, ma il salone della festa era pur sempre una stanza, uno spazio unico dove evitarsi era impossibile. Nel giradischi Mick Jagger ripeteva «I don’t want you to be no slave I don’t want you to work all day But I want you to be true And I just wanna make love to you». Strano, pensai, sentono i Rolling anche ai Parioli, chi l’avrebbe mai detto. E invece era vero, era proprio così, suonava per me quella canzone, e io, in quel preciso momento, avrei davvero voluto essere il suo schiavo, altroché “solo fare l’amore con te”, che poi non l’avevo ancora mai neppure immaginato, figuriamoci. Ma il cuore accellerava, e dal giradischi sempre Mick, il plebeo sublime, intonava “Play with fire”. Giocare con il fuoco, per me un richiamo irresistibile, mi fece ardimentoso e l’invitai a ballare. Mi porse languidamente una mano morbida e calda, si alzò e mi si incollò addosso ondeggiando come un serpente, le braccia strette intorno al mio collo. Puntate sulla mia nuca le sue lunghissime unghie si muovevano piano piano con sapienza e cattiveria orientale, mentre valanghe di brividi colavano giù per la mia schiena. Si stava approfittando di me. Mi sentivo mancare, il fiato corto, il cuore a mille. Ero ormai completamente fuori controllo, il suo profumo, l’odore del suo corpo, del sudore che le incollava la maglietta sul petto e sotto le ascelle era peggio della peggiore droga. Ero fottuto, “a rota”, ma volevo ancora cercare di resisterle e mi imposi di restare impassibile, freddo. Ma tutto di me, del mio corpo dimostrava l’interesse che stavo provando per lei. Si staccò quel tanto necessario per guardarmi in faccia, fissandomi negli occhi, con un sorriso complice, lo sguardo insistente e malizioso dal basso verso l’alto. Uno sguardo di finta sottomissione, tanto per verificare quanto profondamente avesse piantato l’amo nelle mie carni. Sapeva bene, per istinto femminile, che io, giovane maschietto ormonato a mille, non avevo difese, non ero assolutamente in grado di sottrarmi. Le appoggiai timidamente e senza rendermene veramente conto, le labbra sul collo. Avvertii in lei una specie di brivido, ma non si sottrasse. Non so quanto a lungo durò, forse solo i 134 secondi del brano, poi la voce della padrona di casa mi risvegliò annunciando l’arrivo della torta, e mi sottrasse all’incantesimo. Mi ritrovai al centro della sala, solo, sotto lo sguardo dei miei amici che se la ridacchiavano indicandomi. “Che se ridono sti due” pensai. Lei con nonchalance si avvicinò al buffet, prese un piattino con la torta e si mise a parlottare fitto fitto con una tipa esageratamente pariola, per poi tornare a fissarmi, a lungo, interdetta. “Non ti piacciono i dolci?” disse rivolta a me. Le sorrisi annuendo. Era la prima volta che provavo una tale emozione per una ragazza, mi turbava, ma non riuscivo a trovare la cosa esaltante. Imprigionava i miei pensieri, non riuscivo che a pensare a lei, ai suoi occhi, al suo odore. Non potevo accettarlo, sgattaiolai fuori e fuggii giù per le scale. Mi raggiunse mentre cercavo di mettere in moto il motorino, mi baciò dolcemente “Abito lì, proprio qui di fronte, mi chiamo Xenia. Ci vediamo domani?” Xenia, pensai, come Atena, Circe, Calipso…La rividi, certo che la rividi, come avrei potuto sopravvivere altrimenti?