L’Age D’or

Da Mario’s a Trastevere

Gli anni belli del nostro age d’or, quelli in cui il nostro principale problema era solo la matematica (e chi la insegnava), stavano per finire, eravamo proprio in quel particolare momento dell’esistenza in cui la vita sociale prende un’accellerazione entusiasmante. Ogni occasione era per noi “da non mancare”, che si trattasse di una festa di teen agers alla FAO o i concerti al teen club sotto la chiesa St. Paul’s, in qualche scuola internazionale o imbucati ad una festa a casa di qualcuno, magari del tutto sconosciuto. E nonostante tutta questa intensa e ludica attività sociale trovavamo sempre anche il tempo per indignarci, scendere in piazza, inalberare cartelli e attivarci per cause che ritenevamo giuste. Si, eravamo giovani e idealisti e Roma era il centro del mondo, o così ci sembrava quando andavamo a sederci sui gradini di Piazza di Spagna, incontrando giovani squattrinati di tutto il mondo e insieme, strimpellando chitarre e canticchiando canzoncine in voga, stringevamo  amicizie. Poi però ogni giorno e più o meno ad una certa ora la pancia, pretendendo il suo giusto obolo, ci richiamava all’ordine e allora i giramondo con i soldi contati e noi con la misera paghetta che ci passava la famiglia, non potevamo che accontentarci delle pizzerie, tante, tutte alla romana, ma nessuna davvero memorabile, se non nel prezzo. Con i soliti  amici e quelli appena conosciuti, magari dopo una serata al teen club o al Falcone, finivamo sempre per chiudere la serata in una pizzeria, spesso da Ricci, in un vicolo cieco accanto  a via Nazionale, un posto assolutamente poco romano, dall’arredamento austero di boiseries in stile piemontese, ma dove incredibilmente sapevano  fare i migliori crostini burro e alici della citta, e con la romanissima “ciriola” perdippiù. Tante altre volte finivamo in posti più economici, tipo l’obitorio (chiamato così per via dei tavolini in marmo), un grande locale estremamente rumoroso e sempre affollato dove tra suppli, filetti di baccalà, puntarelle, fagioli, pizza margherita, vinaccio e gazzosa per digestivo riuscivamo a chiudere la serata con l’intima certezza di rimandare la digestione di tutta quella roba al giorno successivo. Ma a volte dovevamo darla vinta ai nostri amici giramondoi, che forti delle segnalazioni delle loro guide per viaggiatori squattrinati, ci trascinavano a Trastevere, da Mario’s. Una trattoriola a vicolo del Moro citata su tutte le guide dell’epoca come “ extremely cheap”, e lo era davvero, anche troppo. Del menù ricordo poco, ma con esattezza il prezzo del primo piatto : pasta 100 lire, con il sugo rosso 120 lire, con il sugo rosso e il formaggio 150 lire. Il resto del cibo non posso ricordarlo, ma sicuramente  era adeguato al posto. Come inarrivabile (e imbevibile) ricordo il solito vinaccio bianco dei castelli, addirittura peggiore di quello delle famigerate “fraschette” di Ariccia.  Avevamo altre alternative? Solo altre pizzerie, il  Leoncino, Baffetto, Corallo, il Buchetto a via Flaminia, Ivo a trastevere e poi, la Nuovo Mondo a Testaccio, e da  Remo, sempre a Testaccio. Non so come, forse per spirito di sopravvivenza  avevo rimosso il “Filettaro di Santa Barbara”, nella piazzeta omonima, dove il classico vino dei castelli serviva da digestivo (sempre allungato con la gazzosa) per riuscire a mandar giù e digerire un intero piatto di  filetti di baccalà, unti e indigesti come pochi, con l’accompagno “leggero” delle classiche puntarelle con aglio e acciughe. Sul finire degli anni belli e con maggiori disponibilità economiche iniziammo a scoprire che Roma offriva anche altro, i classici “buijaccari”, trattorie dove la cucina romana, abbondante e fatta a mestiere, se la comandava. E giù a scorrazzare tra amatriciane e gricie, tra carbonare e cacio e pepe, discettando quale fosse la cucina più verace, se quella del Grappolo d’Oro o quella dei tanti Grottino, o addirittura quella di Augustarello a Piazza de Renzi. “Si, ma vuoi mettere la carbonara di Edmondo?”  Alcune volte, più consapevolmente, finivamo in un vino e cucina, addirittura senza insegna, di via dei Banchi Nuovi, dove il sor Alfredo e la sora Ada, la moglie, preparavano pochi piatti, un paio di primi e, di solito, uno stufato in bianco di carne e patate, oppure d’estate il pollo con i peperoni. Roba classica romana ruspante ma fatta a mestiere, e accompagnata da un vino, sempre rigorosamente bianco, ma  onesto e potabile, addirittura buono, quello che facevano loro a Frascati.  Ma le vera specialità, secondo l’amico Filippo Bianchi, erano la trippa (ottima perfino per un fiorentino come lui) e gli involtini, che a volte chiamavamo (chissà poi perché) “messicani”. Il vino, siamo entrambi d’accordo, era effettivamente potabile e se arrivavi la sera tardi, quando ormai ne era scorso parecchio, origliando i discorsi dei vecchi ‘mbriagoni ai tavoli vicini, potevi sentire testimonianze “inconfutabili” su dischi volanti e marziani (non di certo quelli di Flaiano, però). Non stupitevi, quindi, se adesso confesso che in certi umidi pomeriggi invernali preferivo di gran lunga il silenzio ovattato di una celebre sala da the, stile arsenico e vecchi merletti, costosa ma adorabile, dove divorando dolci squisiti e gustando the favolosi mi rilassavo leggendo, anche per indispettire i clienti anglofoni, Le Monde, quello che allora ritenevo fosse il più importante quotidiano francese. Si, sto parlando del Babington’s tea room, locale fondato nel 1893 da due signorine inglesi che avrebbero preferito, forse, sentirsi un po’ più in un cottage UK che non a Roma a Piazza di Spagna. Interruppi improvvisamente questa che da occasionale era diventata un’abitudine periodica e irrinunciabile solo quando Cristina, mia moglie, entrò in crisi per i chili che stava accumulando sui fianchi. Si, effettivamente gli scoones caldi, con burro, marmellata di fragole e panna fresca montata, dopo le uova in camicia con pomodori, funghi alla griglia e salmone affumicato (superbuoni)  seguiti  dai troppi babington’s special BLT con bacon irlandese, lattuga e pomodoro non sembravano proprio rappresentare la dieta raccomandata da Weight Watchers. Dovevo scegliere, o rinunciare a quegli incantevoli pomeriggi, oppure riuscire a far accettare a Cristina un futuro extralarge. Scelsi, ovviamente, la moglie smilza.

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