All’alba

Avevo più o meno 24 anni e quella mattina ero arrivato alla Elios, il villaggio western sulla Tiburtina, prestissimo, erano solo le 6,30 del mattino. Avevamo in programma una giornata densa e faticosa, e con il mio borsone da fotografo ero già al bar interno agli studios per il primissimo caffè della giornata. La preparazione era in ritardo e nel frattempo si erano già fatte le 7,30. Come vola il tempo. Nel bar tanta gente, e in mezzo alla folla una enorme carrozzina blu con dei ruotoni. La carrozzina ospitava un bimbetto, figlio di una celeberrima attrice. Una truccatrice, in vena di piaggerie, gli faceva le vocine… “cippì, piccì… guagliuncello, guagliuncello bell’e mammà…” poi, abbassando la voce per non farsi sentire, “brutt, sfaccimm’e mammeta…”. Stavo proprio considerando la volgarità della cosa, quando la voce roca del barista mi risvegliò “il caffè… si fredda, e c’è gente che aspetta che te levi de mezzo… daije, buttate giù sto caffè e lasciami lavorare”. Non c’è rispetto per chi non ha potere, in nessun campo, figuriamoci in un mondo di apparenze come il cinema. Un ragazzotto vicino a me, un coatto elettricista con cui avevo già avuto tensioni, tratteneva a fatica una risata. “Cosa avrà da ridere st’imbecille” pensai, “cosa c’è di comico…” Cosa c’era di comico l’avrei scoperto un pò di tempo dopo, sul set, dove improvvisamente il pavimento iniziò a diventare morbido, le luci abbaglianti, i suoni amplificati. Un acido, l’effetto di un acido, ma come… il caffè, qualcuno mi aveva messo LSD nel caffè. Quell’idiota che rideva, chi altri se non lui? E il barista, pure lui un testa di kzz, aveva visto tutto, due bastardi, ecco cosa. Non ero in condizioni di lavorare, era evidente. Chiamai Divo e gli chiesi di sostituirmi “È urgente, mi hanno messo dell’LSD nel caffè, devo andare via finché posso” gli dissi. Salii sulla mia Kawasaki 500, la pericolosissima bara volante con cui ero arrivato, e presi la strada di casa. Un viaggio allucinante, infinito, durante il quale non mi rendevo conto di nulla, neppure se ero io a correre o le macchine a stare ferme. Comunque arrivai a casa, in piena crisi, in paranoia. Vedevo solo la faccia di quell’imbecille che rideva, rideva, il caffè nella tazza, il cucchiaino di zucchero che ci girava dentro, la carrozzina, le voci “ piccì, cippì…” paura, crisi di pianto. Otto ore durò l’effetto e quando finì ero stremato e tremante, troppo nervoso per restare da solo a casa. Avevo bisogno di uscire, di rilassarmi. Avevo bisogno di amici, stavo male e nervoso come ero non sarei mai riuscito a dormire. Così uscii e andai, questa volta a piedi, fino a via Arenula, a casa di un’amica francese un po’ hippie, un porto di mare dove musica e compagnia non mi sarebbero mancate. Arrivai che era in corso una specie di festa, il profumo asfissiante del patchouli e quello buono di una torta in cottura, le luci basse, velate, la musica dei Grateful Dead e tanti, ragazze e ragazzi, affaccendati in cucina a preparare dolci e the. Un the scuro, aromatico, con un leggero fondo amaro. Me ne versai un bel tazzone e ci tuffai dentro i brownies appena sfornati. Una delizia. Mi guardavano tutti male, pensai che era la mia visione, che erano i postumi dell’acido, ma mi sbagliavo, era per quello che mi stavo avidamente gustando. Sì, senza saperlo, mi ero accaparrato una grossa tazza di the all’oppio e una bella fetta di dolce alla marijuana. E, accidenti, ancora non mi sono ripreso.

3 pensieri riguardo “All’alba

  1. un simpatico e insolito racconto sugli stati alterati della mente, anche quelli viaggi insondabili dalla ragione, come i sogni che non possiamo gestire ma raccontare in quei pochi dettagli che la memoria immagazzina.

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